lunedì 13 giugno 2016

LA GIOIA UN'EMOZIONE PIACEVOLE E FRAGILE

 Abbiamo appreso dalle ricerche scientifiche che le emozioni hanno tempi molto brevi, ma hanno anche la capacità di modificare i nostri stati d’animo, in modo particolare la gioia, nel senso che la gioia invade tutto l’essere e mette in relazione lo spazio psichico interno con quello esterno, il soggetto e l’oggetto, l’individuo e gli altri.
     Ma cos’è la gioia?
  Secondo la psicologia, e non solo, la gioia è una emozione molto friabile, impalpabile, delicata: si diffonde con facilità dentro gli uomini, ma con altrettanta facilità può annullarsi. Inoltre , per Borgna, la gioia vive del presente, non del passato e nemmeno del futuro, ed è totalmente diversa dalla felicità. La felicità, infatti, ha una lineare e intima relazione con l’ambiente esterno, mentre la gioia nasce dentro di noi: è una esperienza soggettiva bellissima e di breve durata.
  Se, quindi, è una emozione che fiorisce dentro di noi e prende nutrimento dalla profondità del nostro mondo interiore, la gioia non può nascere dalla quantità  e dalla qualità degli oggetti che possediamo  (telefonini, macchine, vestiti e così via), né dal partecipare a programmi televisivi oppure a spettacoli in locali pubblici al momento più in voga. La gioia, invece, nasce quando il nostro cuore si libera dalle paure e dai pregiudizi quotidiani, e recupera la facoltà di aprirsi agli altri in una relazione affettiva e solidale non per l’interesse di un momento particolare, ma perché gli altri sono persone. 
  A questo punto, per aggiungere qualcosa  alle prime considerazioni, possiamo dire che la gioia è una emozione lieve che ci invita vivamente a meditare con attenzione  sul mistero che avvolge  la sfera globale  di tutte le esperienze di un essere umano  e, nel contempo, anche sulla sua  capacità di resistere alle intemperie generate dalle tribolazioni, dalle paure, dai dolori della vita, nonostante la sua fragilità. La gioia è una emozione fuggevole ed evanescente – anche se a volte si manifesta con un’accelerazione della frequenza cardiaca e dell’attività respiratoria - e difficilmente riusciamo ad avvicinarla e trattenerla.
  A seconda, infine, delle convinzioni di ciascuno di noi  ogni essere umano cerca il senso della vita . Fondamentale per la risposta, quindi,  è l’educazione e la formazione cognitiva del soggetto. Secondo alcuni filosofi non esiste nessun senso della vita, per altri studiosi invece esiste .
 A tale proposito per Borgna  la gioia ci dice che molto probabilmente, nella condizione umana, è ben inserita nel suo DNA, e forse, di rinvenire  un senso nella nostra vita anche quando essa sia velata dagli aculei  impietosi dell’insensibilità e dell’indifferenza, dell’individualismo e della litigiosità, e anche della violenza inumana e della stessa morte.
  Insomma, la gioia è un destino impossibile da sondare con le nostre tecniche analitiche che permette al soggetto di percepire il chiarore anche nell’oscurità più profonda  dei campi di sterminio, quando l’evento inspiegabile dell’aiuto divino, sia presente nella nostra anima.  Ma se la gioia proviene dagli abissi della nostra interiorità, allora  tocca a noi, dice Eugenio Borgna:

 <<[…] ricercare le orme della gioia, della sua estrema fragilità, nei volti e negli occhi, nel sorriso e negli sguardi di chiunque incontriamo in vita. Non la inaridiamo con la nostra gelida disattenzione>>.

giovedì 2 giugno 2016

INTERVISTA PRF.PEGORARI

LA POESIA NELL’ERA DELL’INDUSTRIA CULTURALE
Intervista a Daniele Maria Pegorari, docente di Letteratura italiana contemporanea e di Sociologia della letteratura nel Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Bari “A. Moro”
a cura di Enrico Castrovilli

-   La critica letteraria dialoga ancora con la poesia?
La poesia è quasi il solo ambito in cui la critica abbia ancora un suo ruolo e uno spazio atteso e ricercato sia dall’autore che dal critico; ciò dipende dalla sostanziale autonomia della poesia dall’industria culturale, che invece ha progressivamente assorbito tutto il resto del processo letterario, trasformandolo in una ‘filiera’ in cui la scrittura occupa solo il primo segmento, al quale seguono quelli della pubblicazione, della diffusione e della lettura. Il critico entra in gioco in quest’ultimo segmento (egli è, infatti, un tipo particolare di lettore), ma la letteratura gli giunge profondamente trasformata rispetto alla genesi autoriale. L’attuale critica letteraria – che non può non misurarsi con la sociologia della letteratura – deve considerare non solo i tradizionali campi dell’intentio auctoris e dell’intentio lectoris (che il compianto Eco suggeriva di scoprire nell’interazione presente nell’intentio operis, indagabile filologicamente e semioticamente), ma anche, per così dire, quello dell’intentio editoris. Voglio dire che il critico letterario è costretto a ragionare non più su un ‘testo’ (sulle sue caratteristiche formali, sul suo significato, sul suo valore storico, sul suo pregio artistico), ma su un ‘libro’, che soverchia tutti gli elementi ora elencati, con la sua natura di oggetto industriale, da valutare in base al successo, alla tipologia della distribuzione, al rapporto di contiguità/devianza rispetto all’orizzonte d’attesa.
In un contesto siffatto, il libro, prima di arrivare ai lettori, ‘appartiene’ a una serie di figure (l’autore, l’editore, il venditore) che non hanno alcun interesse a conoscere il giudizio critico; piuttosto hanno bisogno di ‘comunicatori’ del libro, cioè di agenti della sua promozione, e in effetti la maggior parte della critica si è trasformata in giornalismo letterario, le recensioni si sono ridotte a segnalazioni oppure sono sostituite dai ‘passaggi’ televisivi o dal battage della stampa generalista. Il romanziere d’oggi non è interessato a ricevere attenzione da parte di uno studioso e, anzi, considera controproducente l’analisi della propria opera. Al contrario i poeti (e ne ho incontrati tanti in quasi un quarto di secolo, dai maggiori ai minimi), avendo messo da parte l’obiettivo della diffusione di massa, cercano il contatto col critico, lo considerano il loro primo lettore e non tanto perché il loro commento aiuti nella comprensione o perché possa far crescere il prestigio dell’opera, ma perché poeta e critico si riconoscono il più delle volte come coautori di un comune processo di costruzione del linguaggio, compagni di strada in una condivisa ricerca di significato.

-                     Dopo gli anni Novanta del secolo scorso, attualmente che genere di poesia gira in Italia e soprattutto in Puglia?
Nel primo quindicennio di questo secolo XXI si è assistito a livello nazionale all’esaurimento della neoavanguardia, che ancora nel ventennio precedente aveva imposto la supremazia del significante, e al trionfo di due fenomeni: da un lato quello della neodialettalità (si pensi al pugliese Angiuli, ai veneti Ruffato e Franzin, alla lucana Finiguerra), che nel rapporto con le lingue ha assunto su di sé quella funzione sperimentale che la poesia della tarda modernità deve avere, ma che non può declinarsi più in chiave neoavanguardistica; dall’altro quello del realismo (soprattutto quello civile del pesarese D’Elia e quello ‘materico’del milanese Oldani e del romano Magrelli) che pare riprendersi il campo per reazione al disimpegno della letteratura e dell’intellettuale, tipico della società della globalizzazione e della crisi della politica. La Puglia è una delle regioni più dinamiche sul fronte poetico nazionale: guardando agli autori che hanno dai 25 ai 50 anni, o giù di lì, le linee predilette sono quella di una poesia ‘metropolitana’, più dura e fortemente concettuale, e quella di una poesia cantata, più intima e tradizionalmente lirica.

-                     Nell’era della velocità, una composizione in versi cosa deve o può proporre al probabile lettore?
Nulla, se pensa di avere vantaggio dalla brevità dell’espressione: la potenza di un verso breve di D’Annunzio, Ungaretti o Luzi o di un ‘osso’ di Montale sta in un meccanismo di concentrazione semantica che non ha niente a che vedere con la velocità di un sms o di un tweet. La poesia ha bisogno di un lettore che sia educato alla lentezza del pensiero, non alla velocità del consumo. D’altra parte sappiamo che i lettori forti (che si indirizzano in prevalenza verso il romanzo) non cercano la brevità e si affezionano molto a libri ponderosi. La forza della poesia di oggi, dunque, non può risiedere in una grottesca concorrenza alla comunicazione newmediale (persa in partenza) ma, al contrario, nella proposta di ampie strutture, di discorsi organici che restituiscano al lettore la speranza di una reazione alla liquidità cui sono condannati. Si legge per consistere, per sottrarsi all’angoscia della morte.

-                     Ma per concepire «ampie strutture» occorrono conoscenze ‘tecniche’: per scrivere versi, dunque, non basta la ‘vocazione’?
Proprio così, ma non basta la sola conoscenza della tecnica. Per la poesia vale ciò che diremmo della musica o delle arti visive: si può essere ‘i primi della classe’ nelle pratiche artistiche, ma totalmente privi di creatività, di genio, di originalità e, dunque, incapaci di diventare artisti. Per converso, si può avere una grande intuizione, ma senza la conoscenza delle strategie formali e senza la consapevolezza della storia culturale che c’è dietro, si potrà anche fortunosamente concepire una buona poesia, ma mancherà il respiro per la costruzione di un intero libro di valore.

-                     Nel ‘postmoderno’ c’è ancora spazio per la poesia?

Se con quella parola intendiamo, come sostengo, l’intera epoca contemporanea, non solo ritengo che ci sia spazio per la poesia, ma penso che essa sia la forma di scrittura che ha consegnato all’Occidente i maggiori capolavori in grado di guardare senza filtri lo squarcio prodotto dalla fine della modernità: La giovane Parca di Valéry, La terra desolata di Eliot, Le occasioni di Montale, I Cantos di Pound, Jukebox all’idrogeno di Ginsberg, Per il battesimo dei nostri frammenti di Luzi e molti altri ancora. Ma se, invece, ci si riferisce a un movimento culturale proprio degli ultimi decenni (il postmodernismo), caratterizzato dalla resa dell’arte alla cultura di massa, la poesia ricopre il ruolo della sua vittima prediletta, per quella sua costitutiva resistenza alla banalità che aveva teorizzato Adorno.