mercoledì 14 dicembre 2016

LA VIGILIA DI NATALE

Quel pomeriggio, nevoso e freddo, della vigilia di Natale Priscilia, un’adolescente avvolta in una mantella sdrucita, aveva percorso la via principale del paese, col cuore che batteva. Aveva camminato un po’ su e giù davanti alla vetrina imbandita del bar-pasticceria con pochi euro stretti nella mano destra gelata, infine si decise.
 Era l’ora vuota del pomeriggio. Non c’era nessuno nel bar-pasticceria. Soltanto, dietro il bancone, quell’uomo che si chiamava Beppe  Longo. Un tipo basso e di corporatura robusta, con la faccia larga, naso grosso e i capelli rossi. Era rimasto sempre uguale da quando lei aveva otto anni. Aveva tra le mani un quotidiano. Lei si avvicinò osservando un timido silenzio.
<<Signorinella…>>.
 Aveva sollevato il capo dal quotidiano. La osservò ma sembrava che non la vedesse. Gli rispose:
<<Sono Priscilla, la figlia di…>>.
 Per un improvviso attacco d’ansia, non ce la faceva a spiccicare il nome del padre.
All’improvviso ebbe timore di non ricordare più il nome del padre, defunto da diversi mesi in seguito a una grave incidente sul lavoro, lasciando nella miseria più nera una nidiata di bambini
 Lui corrugò le sopracciglia, e questa volta la guardò con più attenzione. Le disse:
<<Sei la figlia di Luigi il muratore?>>.
 Rimasero interminabili secondi ad osservarsi in silenzio. Per una frazione di tempo pensò che sarebbe scoppiata in lacrime. Ma il barista le chiese, come se fosse una normale cliente.
<< Cosa ti posso servire?>>.
Priscilla ritrovò la serenità. Il barista prese delle paste, le pose in un contenitore di cartone che avvolse in una carta colorata senza chiedere il suo parare.
<<Buon Natale>> le disse, porgendole il pacchettino

sabato 3 dicembre 2016

L'EDUCAZIONE EMOTIVA DEL BAMBINO NELLA FAMIGLIA

Dai risultati di varie ricerche del settore, abbiamo appreso che l’emozione è allocata nel nostro DNA, per cui nessun educatore ci può insegnare, essendo un patrimonio genetico tramandato dai nostri progenitori. Secondo gli studiosi, la persona può essere invece educata ad apprendere e riconoscere quali sono le emozioni e come gestirle.
 I componenti di base infatti che caratterizzano le emozioni, se insegnati precocemente al bambino, costituiscono il primo passo per un vero e proprio antidoto emotivo, in quanto dato un utile strumento che lo metterà in grado di comprendere le proprie reazioni emotive negative per poterle in seguito trasformare. Quanto appena detto non significa che il bambino non proverà più nella vita emozioni spiacevoli, ne farà senz’altro esperienza di tanto in tanto, ma anziché essere sopraffatto da esse, sarà in grado di dominarle.
 Oggi in famiglia circolano non solo persone appartenenti alla stesso nucleo familiare, ma anche ai media e alle varie categorie di esperti, di conseguenza viene a mancare un metodo educativo unidirezionale ed emozionale.   
 È anche noto che in famiglia gli incontri sono abbastanza rari e quindi, mancando il contatto fisico, meno si conoscono. A detto degli esperti, nella vita quotidiana di una famiglia, l’incontro assume una importanza vitale, anche durante la consumazione dei pasti, perché si possono verificare normali scontri verbali e non quel patologico contrasto cui si assiste di questi tempi. D’altronde, le emozioni costituiscono la prima esperienza che i bambini fanno dell’ambiente e dei rapporti con le persone del proprio nucleo d’appartenenza dove vivono.  Permettere, quindi, anziché impedire ai bambini di vivere le emozioni, incoraggiandoli a incrementare emozioni positive quali la serenità, la gioia, l’entusiasmo e nello stesso tempo aiutarli a ridurre la frequenza e l’intensità di quelle negative.
 Le ricerche di John Gottman, autore del saggio “Intelligenza emotiva per un figlio”, rilevano che i bambini cui i genitori hanno precocemente insegnato a essere <<emotivamente intelligenti>> rendono di più nei compiti scolastici, si agitano o si arrabbiano di meno, hanno un controllo psicofisico adeguato e quindi si ammalano raramente.
 Oltre all’insegnamento, i genitori devono dimostrare ai propri figli tutto il sostegno e la vicinanza di cui siano capaci di farli sentire sollevati e meno spaventati perché degli adulti loro si fidano tanto. Creando in casa un clima sereno e dimostrandosi disporsi a relazionare e a divertirsi insieme ad altre persone, i genitori trasmettono serenità interiore, che sarà per loro di valido supporto per tutta la vita.
 Per sensibilizzare i bambini alla gaiezza, che porta anche alla fiducia, è indispensabile farli apprezzare le gioie semplici e impratichirli ad appassionarsi   
per le cose belle offerte dalla natura (per i fiori e le piante, per le albe e tramonti e così via). Oppure ad essere appagato nella conoscenza degli avvenimenti quotidiani, nella lettura, nell’ascolto di un brano musicale, nella visione di un interessante film.
 Bisogna aiutare i bambini a gestire le loro emozioni. Quando un bambino scoppia in lacrime, oppure è rabbioso o noioso,  non bisogna farsi travolgere da emozioni negative, ma restare tranquilli e pensare a questo evento come una vera e grande occasione per allenarlo emotivamente.  Un atteggiamento da evitare in modo assoluto è quello di ignorare o sminuire le emozioni negative pensando che si risolvano da se stesse o che non siano importanti. I bambini invece hanno necessita di imparare a comprendere quello che provano sentendoselo dire dai genitori e per non crescere con delle insicurezze hanno bisogno di sentirsi compresi.
 Le sicurezze vanno nutrite con la conversazione e lo stabilire di un rapporto relazionale sicuro, che si instaura  quando tra genitore e figlio sussistono palesi canali comunicativi. La presenza,  lo scambio verbale e affettivo, infatti, danno la possibilità alla coppia, genitori/figli, di identificarsi come elementi di una unica struttura sociale, che per avere un buon funzionamento ha bisogno di una massima apertura verso l’altro e una disposizione a dare, oltre che a ricevere.
  L’uso del linguaggio emotivo quindi, dà modo alle persone di manifestare e dare un senso ai propri sentimenti. Per cui, è un buon metodo insegnare al bambino a comunicare il proprio stato d’animo, a fare domande e a chiedere spiegazioni quando non comprende il discorso del genitore.
 È da notare. La curiosità costituisce un bisogno primario dell’uomo sin dalla nascita. Per soddisfarla occorre un ambiente sufficientemente  stimolante. Il bambino sin dai primi anni di vita va esposto a numerosi stimoli, complessi e tali da impegnarlo mentalmente. Infatti, la mancanza di stimoli, crea ragazzi demotivati. Tuttavia, il bambino non deve essere sottoposto ad informazioni che non può elaborare.
   Attraverso questo sistema di comunicazione bidirezionale è più facile favorire nel bambino il riconoscimento del suo stato emotivo, in modo tale che crescendo non si vergogni di esprimersi, ma anzi sia orgoglioso di mostrare  i suoi aspetti più intimi.
 Per concludere, nel corso dello sviluppo il bambino acquisisce diverse capacità, che gli permettono di interpretare e interagire col proprio ambiente, umano e naturale. Anche il linguaggio emotivo si acquisisce nel tempo, grazie al continuo ascolto e all’imitazione, che facilitano la ripetizione delle parole.
 Resta inteso che non tutti i bambini acquisiscono alla stesso modo le varie competenze, per cui bisogna rispettare le singole capacità e, soprattutto gli adulti, e in particolare, i genitori dovranno non solo rilevare eventuali carenze, ma aiutarli a raggiungere  primo grado di benessere psicofisico, individuando i punti favorevoli e dargli un valido sostegno là dove risultano più carenti.

    





martedì 15 novembre 2016

L'AVARIZIA UN'EMOZIONE NEGATIVA

Per i ricercatori del campo psichico, l’avarizia rientra in quel desiderio bramoso, radice di tutte le sofferenze umane, caratterizzato da un eccessivo attaccamento al mondo materiale, ai suoi piaceri e nel rifiuto, più o meno esplicito, di avere in comune con le altre persone ciò che ha, anche quando queste mostrano chiaramente disponibilità verso l’avaro.
 Avendo una propensione a preservare e salvaguardare il gruzzolo, cercando di proteggerlo ad ogni costo, l’individuo diventa un soggetto pericoloso ed emarginato dal punto di vista umano e sociale. Nemmeno una persona di buon senso desidera avere relazioni di amicizia esclusiva, neanche una persona sopporta con piacere il fardello di un simile comportamento, proprio perché la prima reazione che si ha e di astiosità, di sfiducia, di sdegno e talora di odio.
 Tuttavia, se per alcuni amici è possibile escluderlo, rimuoverlo di torno, per i propri familiari che gli vivono quotidianamente vicino, tutti i minuti lui diventa un grande problema di difficile soluzione.
 Per l’avaro il risparmio non rientra nei parametri della norma, rinuncia a  qualsiasi cosa, evita ogni tipo di esborso, percepisce tutto questo una vera minaccia al suo tesoretto, che spesso è composto da poche centinaia di euro, ma pur se modesta quella somma lo rende una persona benestante, facoltosa, apprezzabile.
  La giornata vissuta con uno spilorcio si fa insopportabile,  insoddisfacente, carente di ogni gratificazione, di qualsiasi assennato benessere.
  Esiste una sostanziale differenza tra individuo risparmiatore  e quello tirchio. Distinzione questa importante da conoscere  soprattutto da parte di uno dei due partner prima di creare una famiglia, in quanto se dipenderà dalla fonte di guadagno dell’avaro, la sua rigida parsimonia con cui adopera il denaro sarà fonte di sofferenza psichica giornaliera e diventerà assurda la ripetizione che un individuo così strutturato riuscirà trasmettere non solo nell’andazzo economico ma anche in quello affettivo di tutti i componenti del nucleo familiare.
 Vivere accanto a un simile tirchio, specie se il partner non lavora, significa ottenere il suo benestare ogni qualvolta bisogna fare una spesa. Chi è taccagno tende a rinunciare persino ai bisogni primari, si priva volentieri di ogni soddisfazione della vita: è esperienza comune sperimentare quanto esigui godimenti mitigano la durezza del vivere.
 Rifiutare consciamente prima e in modo rigido a ogni cosa, è simile a trascorrere una vita da recluso, significa ostacolare coloro i quali vivo accanto di sperimentare un arco vitale dignitoso.  
 A questo punto ritengo opportuno precisare che il tirchio è un essere umano che ama in modo patologico il proprio gruzzolo più di ogni altra cosa al mondo. Per cui, psicologicamente posso rilevare che dietro il comportamento dell’avaro adulto, spesso è possibile trovare un bambino bloccato e deprivato che ha appreso ad attaccarsi alla certezza delle cose  per ostacolare la certezza deludente e fonda di non poter confidare sul rapporto affettivo degli altri, sulla partecipazione e sulla continua presenza degli altri.

 L’avarizia è una caratterista socialmente accettata, ciò nonostante può avere conseguenze pesanti  e incapaci sulla salute psicofisica della persona: solitudine, emarginazione, ansia, contrasti interpersonali, divisioni possono alternarsi tramite l’intera vita e degradarla, senza che il tirchio pigli in nessun caso consapevolezza che l’ossessione per i soldi, per l’accumulo siano all’origine della sua malinconia. 

mercoledì 2 novembre 2016

L'IMPORTANZA DELLE EMOZIONI NELLA VITA

Immaginare anche per un attimo una vita priva di emozioni è impossibile: noi ogni istante del quotidiano lo viviamo per loro, predisponiamo gli avvenimenti in modo che ci diano gioia e piacere, evitare le situazioni che portano delusioni, tristezza o dolore.
 La nostra vita, quindi, è un crogiolo di emozioni di funzioni e tonalità variabili: dalle più lievi, quasi impercettibili, a quelle che lasciano segni profondi.
 Dopo numerose pubblicazioni sull’argomento da parete degli neuro scienziati, oggi  scriviamo e  parliamo tanto di emozioni e della loro importanza nella vita, utilizziamo costantemente gli “emoticons” ( faccine umane che esprimono: sorriso, broncio e così via) per esprimere e condividere i nostri stati d’animo con le altre persone dell’ambiente circostante, ma raramente riusciamo a stabilire un contatto col nostro mondo emotivo. Tuttavia è importante entrare nel proprio mondo emotivo perché le nostre emozioni ci guidano all’azione in modo del tutto particolare, ci orientano in una direzione già rivelatasi idonea per superare le sfide quotidiane della nostra vita.
 Si comprende allora perché è importante parlare della funzione di tutte le emozioni anche di quelle socialmente non accettate come rabbia e tristezza. La emozioni oltre ad essere locate nel nostro patrimonio genetico –DNA- guidano il nostro comportamento.
 Le emozioni sono instancabili lavoratrici sia nel nostro interno sia all’esterno, dando un congruo contributo alla formazione delle relazioni sociali. Recenti studi mostrano, infatti, come la nostra identità è determinata da specifiche emozioni, che modellano tutto quello che entra sfera della nostra esperienza e come ci comportiamo noi stessi nel mondo, richiamando nel contempo risposte negli altri.  Secondo alcuni studiosi, la rabbia ad esempio, ci sollecita nel riconoscere meglio situazioni d’ingiustizia e ci rende particolarmente attivi nel cercare soluzioni per porvi rimedio.
 Dai dati raccolti sino a questo punto, si deduce che in linea generale sono identificabili due tipi di emozioni umane:
a)     Emozioni percepite come positive, ovvero gioia, felicità,speranza pietà, serenità,soddisfazione, orgoglio e libertà;
b)    Emozioni percepite come negative, ovvero ansia, paura, tristezza, ira, disgusto, gelosia, invidia e frustrazione.
 Va da sé che non possiamo ignorare la presenza e l’importanza delle emozioni nella nostra vita. anche perché la loro attività la possiamo quotidianamente osservare, traducendola poi nel linguaggio verbale. Qualche esempio:
-         La gioia è una emozione che fa sentire la persona soddisfatta e motivata alla ricerca  e alla creatività.
-         La tristezza si origina da un evento di perdita o da uno scopo non raggiunto. Fa provare alla persona un senso d’esclusione, di abbandono e, spesso, può sfociare nella psicopatologia, la depressione.
-         La paura è quell’emozione che porta la persona in uno stato generale di allerta, come obiettivo finale la sopravvivenza del soggetto a una situazione pericolosa.
-         La rabbia, generata dalla frustrazione che si può manifestare attraverso l’aggressività.
-         La vergogna è una emozione intensa, che se persiste nel tempo, produce un senso di inutilità e la persona che la sperimenta può riportare serie conseguenze psicopatologiche.
-         Disgusto, è un tentativo primordiale di chiudere le narici colpite da un odore nocivo o di sputare un cibo velenoso.
-         L’ansia è considerato un buon segnale se utilizzato per prendersi cura del problema che ci angoscia.   

  Occorre, dunque, osservare, conoscere ed esprimere tutte le nostre emozioni. Essere consapevoli della loro presenza nella nostra quotidianità , ci offre l’occasione ad apprezzare la funzione e il ruolo di esse e a non respingerle o reprimerle più, ma farne uso come una guida sapiente per il raggiungimento del nostro benessere psicofisico. 

martedì 18 ottobre 2016

L'AMICIZIA UN'EMOZIONE LUMINOSA

Nel mondo degli affari, dell’individualismo e dei continui mutamenti, sembra difficile, se non proprio impossibile, parlare di amicizia. Eppure, secondo la psicologia, e non solo, l’amicizia riveste un ruolo importante in tutto l’arco della nostra vita.
 Certamente, nel percorso della vita di tutti noi, le cose cambiano: i vecchi amici, conosciuti sui banchi di scuola o nei giochi di quartieri, si allontanano per lavoro o per cambio di residenza; promettono di rivedersi, poi nascono nuovi interessi, nuovi incontri e finiscono per diventare degli estranei.
  Benché s’ignori che questo distacco sia temporaneo, o definitivo, ciò significa che in una esperienza caratterizzata da un’intensa carica emotiva, così luminosa, come quella dell’amicizia, ci sono evidenti tracce della fragilità.
  Seguendo questo discorso, possiamo aggiungere che l’amicizia è una relazione complessa che ha in sé il significato di uno scambio infinito di pensieri e di ideali comuni, che continua anche quando non ci si vede o non ci si sente più per questioni legate all’aver intrapreso strade diverse. Detto da Borgna, il rapporto affettivo riprende ogni qualvolta s’incontra una persona amica: l’abbraccio colma il vuoto dell’assenza e il linguaggio del volto elimina il lungo silenzio e ritorna ad essere linguaggio della parola: riprende il dialogo apparentemente interrotto ma, in realtà, mai perduto nei meandri del quotidiano. Ciò è reso possibile, secondo H. Bergson, dalla differenza sostanziale tra il nostro tempo interiore, come fatto psichico, o il tempo del vissuto, la cui prima qualità è la durata cioè sequenza di atti senza interruzione, che non si slabbra, e nemmeno si frantuma in mille rivoli, nonostante le continue intermittenze del tempo esteriore, fondato sulla successione degli istanti, come sono registrati dall’orologio o dal calendario.
  Radicata, quindi, nella stessa natura di esseri umani, l’amicizia come dialogo nel silenzio e nella parola scorre riservata e sotterranea tra le persone amiche: lontane e vicine, assenti e presenti, consapevoli che nell’ora del bisogno ci si possa essere presenti, incontrarci, annullando ogni particolare interesse o emozione e ogni distanza. Perciò, quando vi sono momenti di profonda crisi psicologica, l’amicizia diventa un provvidenziale e insostituibile veicolo per traghettarci  al di là della   situazione di disagio psichico; e se è un atto spontaneo di generosità, in ogni amicizia, recente o antica non importa, si riaccende una scintilla di comunione di sentimenti e di emozioni che, in seguito, difficilmente si spegnerà.
   L’amicizia, come elemento indispensabile per la vita, è un dono prezioso che va offerta e ricevuta; ma rispetto alla sua nascita e alla sua struttura essenziale ci sono diverse forme di amicizia, per esempio: quelle basate su un rapporto sincero, di condividere le stesse emozioni, le occasionali e di privilegio (significato negativo F. Alberoni) mai ferme e fisse: alcune finiscono improvvisamente, altre fioriscono, alcune vanno altre arrivano seguendo i normali cambiamenti previsti di una società in continuo movimento, e anche dagli inevitabili cambiamenti insiti in ogni esistenza.
  La realtà è che l’amicizia nel tempo cambia, ma nella sua normale evoluzione non si isola, o si eclissa, richiama, invece, intorno a sé altre  amicizie in un circuito virtuoso di solidarietà e di condivisione nel quale, con ogni probabilità, si riconosce la parte fondamentale e caratteristica della cosiddetta  amicizia esclusiva (legata a una sola persona, o ad un gruppo di élite) , o chiusa e quella non esclusiva, o aperta.
 Inoltre, nella quotidianità di ciascuno, nulla accade che non lasci traccia,che non diventi memoria e sentimento. L’amicizia, quindi, come memoria reale vissuta dal soggetto, nella quale sono enfatizzati alcuni elementi – quelli che egli considera la vera essenza delle proprie esperienze -  e taciute altri – quelli che ritiene invece irrilevanti, e non come un prospetto che dispone gli elementi di una serie secondo la loro successione temporale, insomma come memoria  interiorizzata  che ha elaborato,  analizzato e  trasferito fatti che colpiscono  e piacciono di più del passato nell’interno della propria coscienza,  ridandogli  nuovi contenuti emotivi e creativi.
  Secondo Borgna, infine, anche l’amicizia è fragile e, come friabile è continuamente  esposta alle ferite delle svigorite forze  fisiche e psichiche,  della mancanza di attenzione, della scarsa gentilezza, degli affanni quotidiani o dalle influenze esterne come la pressione sociale, le credenze religiose, le preferenze sessuali e così via non sempre riconoscibili  come veicoli che procurano turbamenti ed emozioni negative.  Benché, conclude lo studioso, l’amicizia non sia un sentimento così fragile come la  timidezza, la gioia e la speranza, anche nella sua struttura più profonda si può occultare il seme malefico del vivere che la ferisce.
                   

martedì 4 ottobre 2016


EMOZIONI E MEMORIA

Le emozioni sono da sempre campo di interesse privilegiato per filosofi e poeti e solo in questi ultimi anni, - grazie alle neuroscienze e alla psicologia -  si è osservato invece una inversione di tendenza che ha influenzato molti aspetti del nostro modo  di vivere e di pensare.
 Le emozioni sono così diventate un argomento stabile di discussione nelle associazioni culturali, sui quotidiani, nelle riviste e nei programmi televisivi di maggior successo; d’altra parte la pubblicità, che è stata sempre indirizzata a sollecitare la componente emotiva del cliente, ma in modo implicito, se non proprio occulto, fa ormai riferimento in modo esplicito alle emozioni.
 Enorme  risonanza ha in seguito avuto il termine di “intelligenze emotiva”, con ripercussioni anche pratiche nella vita e l’organizzazione scolastica e lavorativa.
 In interventi precedenti abbiamo già visto che cosa è una emozione e come  è possibile indagarla, ora qui resta di conoscere e di analizzare il meccanismo dei processi di memorizzazione delle emozioni.
 È noto il fatto che i nostri ricordi sono costituiti da un insieme di nozioni che comprendono anche le emozioni. Queste, a loro volta, riproducono moltissimi pensieri che in gran parte condizioneranno il nostro modo di pensare e di prendere qualsiasi decisione.
  I ricordi però possono anche svanire mentre le emozioni, positive e negative che siano restano. Sì, ma dove? E come si stabilizzano?
 Tutto ciò è stato verificato con uno studio, pubblicato nell’agosto 2010 sulla prestigiosa rivista internazionale <<Science>>, da due ricercatori dell’Istituto Nazionale di Neuroscienza di Torino, Sacchetti B. e Sacco T,  i quali hanno messo in evidenza come alcune aree del nostro cervello evocano alla memoria le emozioni congiunte a un avvenimento importante del passato.
 Questo tipo di “memoria emotiva” sarebbe serbata nella corteccia sensoriale di ordine superiore, che di fatto è connessa alle aree del nostro cervello che sviluppano gli stimoli sensoriali e le emozioni.
 Di conseguenza, un particolare stimolo sensoriale, come appunto un boato proveniente dalla strada o un profumo dolciastro o una certa luce ardente, non soltanto ripristina il ricordo di un’esperienza passata, ma anche il vissuto emotivo che l’ha affiancata.
 Pertanto, i ricordi corredati di densità emotiva hanno la tendenza a permanere nel tempo, a volte anche per tutta l’esistenza, e influire sulle nostre  scelte, decisioni e comportamenti.
 Lo scopo “ultimo” di questa ricerca è quello di portare a trovare nuovi modi per sviluppare esperienze dolorose legate a disturbi post-traumatici da stress o le fobie, e per separarsi da tale vissuto emotivo, Sacchetti però punta l’attenzione sui possibili risultati di scarsa deontologia, col modificare il ricordo di una vittima di reato che deve dare testimonianza su quanto le è accaduto o persino  la possibilità di smarrire importati memorie storiche come l’Olocausto.
 A questo punto possiamo concludere dicendo che  le recenti scoperte delle neuroscienze hanno messo in luce l’importanza che assumono le emozioni nella vita quotidiana, non separate dal pensiero e dal ragionamento, come si è sempre creduto, ma indispensabili agli stessi processi decisionali della mente razionale. Si instaura una collaborazione tra processi cognitivi ed emotivi e nel processo della memoria le emozioni assumono una grande importanza.
 La memoria emotiva, infatti, ci pervade della sensazione che abbiamo provato in passato prima, o anche senza che il ricordo dell’immagine giunga alla coscienza.







venerdì 16 settembre 2016

LA MALATTIA RENDE VULNERABILI

La malattia intesa come uno stato patologico per alterazione della funzione di un organo o più organi (Il Nuovo Zingarelli)  ci fa diventare vulnerabili, fragili nel corpo e nella mente, per questo ci sentiamo spaventati e, soprattutto, disorientati. Con altre parole, la malattia porta con sé un profondo malessere psicologico che, in alcuni casi, può arrivare a cambiare anche in negativo il sistema di vita di ciascuno di noi. Inoltre, con diversi valori prognostici la patologia porta con sé dolore, solitudine, limitazioni alle normali attività quotidiane e a volte, nei momenti di maggiore sofferenza, di fragilità ci pone di fronte alla morte con tutte le domande per il credente e non, le paure, le angosce che generano in noi il pensiero finale della vita.
  Dal punto di vista psicologico, ciascuno di noi si comporta in modo diverso nell’accettare e vivere la malattia. Essere malati d’influenza, per esempio, è una situazione del tutto diversa che essere affetti di una grave  patologia neurologica o tumorale. D’altronde nessuno è contento di essere ammalato. Per cui, quando si è colpiti da una patologia, si è pervasi da un senso d’angoscia e di disperazione, da questi momenti di umana esperienza di fragilità, originano le reazioni psicologiche più diverse perché varie sono le modalità di affrontare la singola malattia.
  Di sopra, abbiamo illustrato come ogni paziente si costruisce una propria modalità per vivere le debolezze e le fragilità generate dalle malattie. Ora passiamo ad analizzare i cambiamenti psicologici dei malati rispetto al concetto evolutivo della malattia e, nello specifico, delle categorie acute e croniche.
  Si parla di malattia acuta quando un morbo si manifesta improvvisamente e virulentemente e il suo effetto non comporta alla base nessun rischio per l’individuo, inoltre il suo perdurare è ritenuto in media breve, e ciò non lascia spazio a una riflessione  e comprensione profonda  della gravità. Ma pur vivendo in un contesto di temporanee  limitatezze e di emozioni ferite, il paziente non perde mai la speranza per il futuro.  
  Quando la malattia da acuta perdura nell’individuo per un periodo indeterminato, spesso per l’intero corso della vita, si trasforma in cronica: l’esperienza del tempo cambia profondamente, i giorni sono sempre uguali, viene meno la speranza verso il futuro. Per cui, come afferma Eugenio Borgna, in ogni paziente non può non chiedersi con animo doloroso e angosciato cosa sarà  ancora la mia vita, quali rapporti interpersonali saranno possibili, quali problemi quotidiani  e quale impegno di lavoro mi saranno possibili, come accoglieranno gli altri, soprattutto la mia famiglia la mia debolezza e la mia fragilità, e quale aiuto sarà loro possibile darmi.
  Il primo punto di riferimento del malato cronico è l’ospedale. In queste strutture sanitarie, l’ammalato può trovare trattamenti adeguati al suo caso specifico, al di fuori della così detta “alleanza terapeutica” tra medico e paziente. Il medico ha il compito di prospettare al paziente e ai familiari, i vantaggi delle nuove terapie mediche e chirurgiche che riguardano il suo caso. Spesso, però, i sanitari si  dimenticano – per mancanza di disponibilità - che dietro quel “caso” c’è una persona fragile, vulnerabile ferita dal dolore e dall’angoscia; e sarebbe invece sufficiente uno sguardo dolce o un sorriso ad alleviare il dolore psichico.
  Raramente, per osservazione personale, gli effetti di una malattia cronica si limitano al solo individuo malato, perché l’ansia, l’angoscia che prova l’ammalato la prova anche  la persona che gli è vicina.
  La presenza in casa di un paziente con patologia cronica incide, più o meno profondo, su tutti i componenti del nucleo familiare, che diventano più vulnerabili, sostengono impegni quotidiani spesso molto gravi, derivanti dal lavoro di cura, dalla continuità dell’impegno, dell’intensità emotiva generata dal costante confronto con la sofferenza psicofisica e la morte.
 In conclusione, scoprirsi ammalato, soprattutto cronico, l’esaurimento delle forze fisiche ed emozionali causato dal morbo, diventa fonte di fragilità, di vulnerabilità per l’ammalato e anche per il familiare, che giornalmente lo assiste.




















venerdì 2 settembre 2016

LE EMOZIONI NELL'EDUCAZIONE

Nel corso di questi ultimi anni, abbiamo avuto modo di cogliere e di apprezzare l’importanza che i vari studiosi, dalle neuroscienze alla pedagogia e psicologia,  danno all’emergere dei sentimenti e delle emozioni dei discenti – bambini ed adolescenti -, legati al mondo della scuola, siano essi in riferimento ai rapporti sociali – con i compagni – o vincolati al loro percorso di apprendimento.
 Attualmente, oltre agli interventi dei vari ricercatori e ai suggerimenti della Riforma “Educazione alla salute” che indicano:<<Comprendere che l’uomo si deve confrontare con i limiti della propria salute ed elaborarli, integrandoli nella propria personalità>>, (www.istituzione.it) la scuola è diventata un luogo privilegiato per  lo sviluppo di corsi di alfabetizzazione emozionale e sia per l’apprendimento in senso specifico.
 Per moltissimo tempo il predominio della tradizione cartesiana, che ha considerato la chiarezza e la lucidità come criteri indiscussi di verità, ha caratterizzato non solo l’ambito filosofico e psicologico, ma anche quello pedagogico, dove a lungo il mondo dei sentimento e stato ignorato, parte importante della formazione, privilegiando lo sviluppo delle attività mentali piuttosto di quelle del cuore.
 La svolta in direzione di una rivisitazione di questo collaudato e rigido modello è giunta grazie al contributo sia dalle neuroscienze, che hanno consentito di realizzare una nuova mappatura neuronale delle relazioni tra cervello e cuore, sia dalla psicologia e dalla pedagogia, che hanno realizzato e proposto un nuovo metodo di tipo umanistico alla conoscenza dell’essere umano.
 Una scuola, quindi, - come anche la famiglia - più attenta all’educazione del cuore può trarre alimento e nutrimento dalle emozioni e dai sentimenti, per orientare le ricerche, gli scopi, le direzioni di senso dell’esistenza umana.
 Educare bambini e adolescenti alle emozioni e ai sentimenti non significa insegnare a ignorare o a negare le tendenze istintive, a tacere le varie emozioni, a inibire quei particolari stati d’animo che possono impedire il corretto svolgimento delle attività intellettive. Secondo i nuovi orientamenti pedagogici, il compito educativo principale si realizza nell’accompagnare il discente ad assegnare un ruolo significativo alla vita emotiva nella sua esistenza, assumendosene la totale responsabilità.
   Va da sé che la scuola non si deve impegnare di trovare nella sua azione didattica soltanto strumenti idonei che facciano di sostegno allo sviluppo cognitivo, ma anche di reperire le abilità che favoriscano le competenze emotive, quali l’espressività, la comprensione e la regolazione delle emozioni (capacità, queste, che analizzeremo in un prossimo intervento).
 Gli insegnamenti emozionali appresi durate il periodo dell’infanzia e dell’adolescenza possono dare tonalità adeguate alle nostre risposte emozionali. Convogliare le emozioni con lo scopo di conseguire un fine produttivo raffigura la via maestra che guiderà l’essere umano a esprimere le proprie emozioni con intelligenza. È necessario intervenire nel modo in cui, gli educatori tutti, preparano i discenti alla vita: ma devono iniziare dai banchi della scuola a insegnare l’autocontrollo, l’autoconsapevolezza e l’ascolto dei bisogni altrui (Goleman 1996).
   Allora bisogna progettare interventi didattici che tengano in considerazione il ruolo che l’emozione (positiva o negativa) ha nell’attività educativa come la memoria, l’attenzione, il pensiero, e  quindi anche essa influenza l’apprendimento.
 Questo evento, secondo i ricercatori, dipende dall’attivazione di diversi fattori, tra cui citiamo: a) al momento di richiamare un apprendimento la sintonia emotiva nella quale siamo in quel momento consente l’attivazione della stessa rete neurale che ha memorizzato l’apprendimento; b) nuove emozioni consentono di creare altrettanti modelli comportamentali per le  persone.
 D’altronde, un apprendimento realizzato solo sul piano cognitivo astratto rimane distante dal contatto con la realtà e con l’esperienza diretta. Esso non raggiunge un sufficiente apporto neuronale di memorizzazione sufficiente per essere ricordato nel tempo. O meglio, la memorizzazione avviene, ma ha scarse probabilità di stabilire collegamenti con altre reti neuronali e, quindi, non avrà energia per essere ritrovata in un momento successivo.
 A questo punto possiamo concludere dicendo che se le emozioni sono in stretta dipendenza con la conoscenza, allora è fondamentale trattarle all’interno delle aule scolastiche, che sono sicuramente un ambito idoneo in cui bambini e adolescenti hanno l’opportunità di sentire e di vivere le varie emozioni.
                                                                       


















mercoledì 3 agosto 2016

DIFFERENZA TRA EMOZIONI E SENTIMENTI

Molto spesso si parla di emozioni e di sentimenti usando queste parole in modo errato.
 Secondo i neuro scienziati, le emozioni si intendono come l’insieme delle risposte osservabili, cioè visibili, in seguito all’attivazione di determinate modifiche fisiche connesse a determinate immagini mentali. La loro principale funzione consente di rendere più efficiente la reazione dell’individuo in cui si rende necessaria una risposta immediata della sopravvivenza, reazione che non utilizza cioè processi cognitivi ed elaborazioni coscienti.
 I sentimenti invece si riferiscono all’esperienza da parte dell’individuo di tali cambiamenti, quindi  riguarda l’esperienza privata delle emozioni. Inoltre le emozioni, in quanto manifestazioni abbastanza note sono degli stati di breve durata e transitori, mentre i sentimenti possono rimanere attivi per un tempo più lungo.
  In base alle ricerche neuroscientifiche, le emozioni sono un complesso di cambiamenti nello stato corporeo causati dal cervello, in risposta ai contenuti dei pensieri relativi a una specifica entità o ad un particolare evento nell’ambente dell’individuo. I processi psicologici e fisiologici interagiscono, dando vita a esperienze soggettive, mutamenti corporei e tendenze comportamentali.
 Secondo lo psicologico Paul Ekman nell’individuo sono presenti sin dalla nascita delle emozioni di base quali gioia, tristezza, rabbia, paura, vergogna e disgusto. Le emozioni si diffondono in ogni ambito della vita degli individui e influenzano in modo adeguato anche gli aspetti cognitivi della mente. Per fare un esempio, le emozioni incidono sulla memoria: numerose ricerche hanno messo in evidenza che in fase di recupero dell’informazione dalla memoria, avere uno stato emotivo adeguato a quello presente al momento della memorizzazione dello stesso materiale può favorire il ricordo.
 I sentimenti individuano l’esperienza privata che ogni individuo ha nel momento in cui verifica una emozione. Secondo il neuro scienziato Antonio Damasio, l’organismo interagisce con l’ambiente non solo con il cervello, ma non l’intero corpo, di cui ci rende coscienti attraverso l’esperienza emotiva.
 I sentimenti non sono osservabili in un’altra persona, infatti è possibile solo percepire i nostri stati emozionali e tentare di dare loro un significato a livello consapevole.
 Sin dal passato storico, gli studiosi si sono interessati ai sentimenti ed è a iniziare dall’opera di Cartesio, con la distinzione tra “res cogitans” e “res extensa”, che essi hanno assunto un’importanza specifica rispetto alle funzioni corporee.
 Successivamente, i sentimenti sono stati prima denigrati con l’avvento della rivoluzione industriale e del capitalismo, poi hanno conosciuto una nuova forza espressiva durante il Romanticismo e agli inizi del XX sec. Con la nascita della Psicanalisi di Freud.
 I sentimenti e, più in generale, la capacità dell’individuo di riflettere su di essi, sono indice della maturità psichica e affettiva del soggetto.
 In anni più recenti, i sentimenti sono divenuti oggetto di interesse e di studio da parte delle neuroscienze, le quali affiancano alle conoscenze psicologiche le indagini anatomo-fisiologiche del sistema nervoso.




sabato 16 luglio 2016

QUEL MATTINO DI FINE OTTOBRE

Elisa aveva festeggiato il sedicesimo compleanno l’estate scorsa. Aveva invitato le sue amiche e alcuni compagni della terza B del liceo della città e aveva trascorso il pomeriggio con loro divertendosi. All’inizio del nuovo anno scolastico un improvviso malessere interiore le rendeva difficile ad avere rapporti positivi con le sue amiche, aveva chiuso persino la sua pagina su Facebook e spento l’ iPhone, e ciò che la metteva in crisi maggiormente, non riusciva  a realizzare una relazione stabile e soddisfacente sentimentale con un coetaneo, anche se non rifiutava le sue avance sessuali.
 Le settimane passavano e le giornate erano sempre più monotone. Gli stessi gesti, gli stessi discorsi, la stessa profonda tristezza, ogni giorno. Durante quel periodo Elisa preferiva rimanere da sola. Quel sorriso sul volto d’angelo, che rivelava la sua voglia di vivere era stato sostituito da un velo doloroso, melanconico. Faceva difficoltà ad alimentarsi e ad addormentarsi, e quando il sonno  arrivava verso le due o le tre del mattino di tanto in tanto si svegliava di soprassalto e rimaneva lì distesa gli occhi al soffitto, immersa nella luce blu del comodino.
  Quel mattino di fine ottobre Elisa seduta su bordo del letto non riusciva ad alzarsi, era più triste del solito e nemmeno il pensiero di lavorare col gruppo dei colleghi al progetto del giornalino scolastico programmato quel giorno, placava la sua angoscia. Piangeva. Poi, desiderosa trovare un po’ di serenità in una voce familiare, chiamò la madre. La donna la raggiunse nella sua stanza e le sedette accanto su lettino. Rimase per un istante in silenzio cercando qualcosa da dirle.
<<Amore mio, perché piangi?>> esordì con un timbro di voce dolce e scandendo le sillabe, per non tradire il proprio stato d’animo.
  Elisa posò la testa sul seno della genitrice e,tra i singhiozzi, rispose :
<< Mamma, sono disperata, mi sento una persona inutile, incapace di trovare una via d’uscita da questo penoso stato d’animo>>  e dopo qualche secondo di silenzio aggiunse
:<<Preferisco morire che continuare a vivere con questo dolore schiacciante,che mi toglie ogni forza  e m’impedisce di vedere nel senso giusto le cose della vita>>.
<< Cosa dici, amore mio, il tuo malessere è una semplice condizione di tristezza che può capitare nel corso della nostra vita ad ogni adolescente>> disse mentre  accarezzava i lunghi capelli corvini che fasciavano le spalle della figlia. E facendo finta di frugare tra i sui ricordi, aggiunse con voce rassicurante e più conciliante possibile:
<<Anch’io alla tua età l’umore nero mi tolse il sorriso dalla labbra.>>  e  quasi sottovoce:
<<  Poi, incontrai Paolo, tuo padre. Il senso di disperazione scomparve>>.
  Elisa parve non stupirsi della storia a lieto fine dei genitori.  Sussurrò:
<<E già, ma io non ho incontrato ancora nessun Paolo>>.
  Il precipitare, infatti, dei sintomi del  grave disturbo psicopatologico era stato causato dal traumatico abbandono dell’ultimo fidanzatino, come aveva confessato alla sorella maggiore e senza provare il minimo imbarazzo le  riferì anche che era incapace di dare un taglio definitivo a una relazione sentimentale che non rispondeva ai suoi più intimi sentimenti.
  Allora i genitori, senza perdere altro tempo prezioso, trasferirono la figlia in un liceo della città vicina, sperando in un miglioramento nei rapporti con le ragazze del nuovo ambiente scolastico.  Elisa, invece, continuava a manifestare una certa soggezione nel prendere o rispondere ad alcune iniziative di carattere scolastiche o ludiche. A volte si mostrava così impacciata che anche nelle attività più semplici rispondeva:
 <<Sì, sì…mi piacerebbe…ma non posso>>.
 Su consiglio dell’equipe psicopedagogica della scuola, Elisa  seguì un programma di recupero per migliorare i rapporti con in coetanei, a sentirsi più sicura, a esprimere i suoi sentimenti e a gestire i rapporti sentimentali con i ragazzi.
  Sin dai primi incontri, i rapporti in famiglia erano cambiati in meglio, aveva riaperto la pagina su Facebook e riacceso l’iPhon 6, instaurò nuovi rapporti di amicizia e soprattutto, ritornò sul viso d’angelo il sorriso. Era guarita.
                                                                             

   

lunedì 4 luglio 2016

GESTIRE LE PROPRIE EMOZIONI

Abbiamo appreso, da precedentI ricerche, che  una emozione è un cambiamento rispetto  ad uno stato precedente. Inoltre essa è un  elemento naturale che colpisce i nostri pensieri, cioè la componente emotiva.  Inoltre, le emozioni sono delle reazioni a specifici timoli che abbiamo percepito, a eventi  che in varie occasioni abbiamo vissuto.
 Oltre a ciò, l’emozione è un elemento che in qualche modo ricerchiamo e pur di poterla vivere, siamo disposti ad affrontare un disagio psichico o qualcosa altra che sia un valido prezzo da pagare, è un elemento naturale che ci spinge ad agire.
 La possibile mancanza di questa consapevolezza emotiva è sicuramente fonte di rischio per lo sviluppo del disagio psicologico. Le persone affette da “alessitimia”, termine coniato da Sifneos, hanno una insufficiente capacità di gestire le proprie emozioni. Tale inefficienza nel rendere manifeste le proprie emozioni non possono essere considerate come semplici difficoltà di tipo espressivo ma una vera e propria limitazione nella reale possibilità di elaborare le emozioni e di costruire un proprio mondo interno.
 Un’ottima consapevolezza emotiva è invece alla base l’empatia. Essere empatici significa avere la capacità di porsi nella situazione di un altro, migliora l’adattamento, favorire lo sviluppo di altre competenze personali. Significa avere la capacità di condividere sentimenti di un’altra persona in modo qualitativo e non quantitativo, migliorando le relazioni interpersonali.
 L’empatia non si apprende e né si insegna. È una capacità allocata nel nostro DNA e a volte viene smarrita per disagio emotivo generato da uno stato ansioso, da inibizione. Sin da primi anni i bambini dimostrano di possederla, come anche gli animali. Molte esperienze che ottundono la coscienza possono contribuire a renderla inefficiente. Nel bambino e soprattutto al neonato la capacità empatica è massima. Egli può percepire gli stati d’animo della madre, anche senza la mediazione di un canale sensorio conosciuto.
   Sia attraverso vari segnali – odori, mimica o telepatia – il messaggio in arrivo, per ottenere un valido riconoscimento, deve in qualche misura riprodurre l’emozione di partenza. In qualche modo il soggetto empatico deve riprodurre in sé l’emozione dell’altro per poterle dare un nome .
 Questo fenomeno avviene molto probabilmente a livello inconscio. Si suppone che le emozioni altrui arrivino alla coscienza solo se oltrepassano una certa soglia di intensità  e solo se sono disturbate dalla presenza di altre emozioni. Ecco perché per essere empatici bisogna saper creare nell’intimo un attimo di silenzio interiore, un attimo di vuoto recettivo, un attimo di serenità tale che la soglia di percezione della coscienza possa abbassarsi quel tanto  che serve.
  L’empatia ci sembra come un momento di equilibrio tra la capacità di ascolto e di autocontrollo, unito alla consapevolezza di quanto si esperisce  (capacità di distinguere le proprie dalle altrui emozioni). È la capacità di fidarsi senza remore dei meccanismi di percezione inconsci, quel tanto per coglier e analizzare.
  Passiamo ora ad analizzare brevemente le capacità empatiche.
  Premessa indispensabile per poter stabilire un contatto empatico è il rispetto assoluto e senza remore per la diversità. Soltanto chi sa accettare l’altra persona è in grado di entrare in sintonia empatica. Soltanto chi sa sospendere il giudizio o si colloca in una posizione libera da eventuali pregiudizi può farlo.
 La conseguenza è che l’empatia deve  rendersi disponibile ad accettare ogni aspetto di se stessi, di ogni demone che soggiorna nella propria mente. L’empatia per i sentimenti dell’altra persona molto probabilmente va di pari passo con l’empatia per il proprio mondo emozionale. Chi si pone con  gli atri in una posizione di autorità o difesa  o chiusura molto probabilmente  lo fa anche verso le proprie emozioni o alcune di esse. Pertanto, l’empatia non va d’accordo con la paura per le emozioni, con le strategie di evitamento o di negazione. L’empatia è incompatibile anche con la collera. Lo sviluppo dell’empatia è considerato l’antidoto ideale per controllare questa emozione negativa.
 La persona empatica non ha bisogno di nascondersi dietro facciate e ruoli. Essa sa essere se stessa nel distinguere qualità e appartenenza delle emozioni percepite. Componenti apertura mentale, controllo, consapevolezza. Esprimendo senza alcun timore i sentimenti che prova, definisce un contesto di sincerità e pertanto favorisce anche il rilassamento e l’autenticità dell’altro. In questo modo crea i presupposti necessari per il contatto empatico. L’empatia si accompagna dunque all’autoconsapevolezza, all’autocontrollo, al non attaccamento ai pregiudizi, all’autenticità  e schiettezza con sé e con le altre persone.
 Per rivalutare o sviluppare le naturali capacità ematiche celato in ogni persona necessita innanzi tutto rimuovere l’ansia e altri tipi di difesa nei riguardi delle emozioni.  Seguendo questo itinerario si possono individuare due modi per poter sviluppare l’empatia, uno tecnologico l’altro globale, gestaltico.
 La via tecnologica riguarda le varie tecniche che servono a creare rapporti. È ampiamente dimostrato che le persone naturalmente empatiche hanno la capacità di entrare in sintonia con gli atteggiamenti i ritmi e la fisiologia della persona con cui vogliono empatizzare, cosa che verosimilmente consente loro di creare dentro di sé la stessa emozione.
 Oltre a queste tecniche, tutto ciò che favorisce il rilassamento, il silenzio interiore, l’ascolto, la consapevolezza, il superamento delle difese razionali e non, può favorire il recupero delle capacità empatiche. È questione di allenamento e di sperimentazione.
 La gestaltica fa riferimento alla culture orientali: rilassamento, accettazione, distacco, svuotamento della mente dai pensieri interferenti e dai pregiudizi; allenamento alla consapevolezza di energie e sensazioni sottili.
 La donna è avvantaggiata in questo cammino rispetto all’uomo, sia per la peculiarità del suo funzionamento cerebrale, sia per la naturale inclinazione all’ascolto e alla sensibilità emotiva. L’uomo trova in genere più interessante l’approccio tecnologico. Non è obbligatorio fare una scelta di campo: le due vie possono anche integrarsi.    
 A questo punto possiamo concludere dicendo che la qualità dell’esistenza di ogni persona  è influenzata dal modo in cui apprende, fin dai primi anni ad affrontare le proprie emozioni: se prevalgono reazioni emotive distruttive, queste finiranno per influenzare negativamente il benessere psicologico.
  Le emozioni più frequenti diventano  modalità di risposta abituali.



lunedì 13 giugno 2016

LA GIOIA UN'EMOZIONE PIACEVOLE E FRAGILE

 Abbiamo appreso dalle ricerche scientifiche che le emozioni hanno tempi molto brevi, ma hanno anche la capacità di modificare i nostri stati d’animo, in modo particolare la gioia, nel senso che la gioia invade tutto l’essere e mette in relazione lo spazio psichico interno con quello esterno, il soggetto e l’oggetto, l’individuo e gli altri.
     Ma cos’è la gioia?
  Secondo la psicologia, e non solo, la gioia è una emozione molto friabile, impalpabile, delicata: si diffonde con facilità dentro gli uomini, ma con altrettanta facilità può annullarsi. Inoltre , per Borgna, la gioia vive del presente, non del passato e nemmeno del futuro, ed è totalmente diversa dalla felicità. La felicità, infatti, ha una lineare e intima relazione con l’ambiente esterno, mentre la gioia nasce dentro di noi: è una esperienza soggettiva bellissima e di breve durata.
  Se, quindi, è una emozione che fiorisce dentro di noi e prende nutrimento dalla profondità del nostro mondo interiore, la gioia non può nascere dalla quantità  e dalla qualità degli oggetti che possediamo  (telefonini, macchine, vestiti e così via), né dal partecipare a programmi televisivi oppure a spettacoli in locali pubblici al momento più in voga. La gioia, invece, nasce quando il nostro cuore si libera dalle paure e dai pregiudizi quotidiani, e recupera la facoltà di aprirsi agli altri in una relazione affettiva e solidale non per l’interesse di un momento particolare, ma perché gli altri sono persone. 
  A questo punto, per aggiungere qualcosa  alle prime considerazioni, possiamo dire che la gioia è una emozione lieve che ci invita vivamente a meditare con attenzione  sul mistero che avvolge  la sfera globale  di tutte le esperienze di un essere umano  e, nel contempo, anche sulla sua  capacità di resistere alle intemperie generate dalle tribolazioni, dalle paure, dai dolori della vita, nonostante la sua fragilità. La gioia è una emozione fuggevole ed evanescente – anche se a volte si manifesta con un’accelerazione della frequenza cardiaca e dell’attività respiratoria - e difficilmente riusciamo ad avvicinarla e trattenerla.
  A seconda, infine, delle convinzioni di ciascuno di noi  ogni essere umano cerca il senso della vita . Fondamentale per la risposta, quindi,  è l’educazione e la formazione cognitiva del soggetto. Secondo alcuni filosofi non esiste nessun senso della vita, per altri studiosi invece esiste .
 A tale proposito per Borgna  la gioia ci dice che molto probabilmente, nella condizione umana, è ben inserita nel suo DNA, e forse, di rinvenire  un senso nella nostra vita anche quando essa sia velata dagli aculei  impietosi dell’insensibilità e dell’indifferenza, dell’individualismo e della litigiosità, e anche della violenza inumana e della stessa morte.
  Insomma, la gioia è un destino impossibile da sondare con le nostre tecniche analitiche che permette al soggetto di percepire il chiarore anche nell’oscurità più profonda  dei campi di sterminio, quando l’evento inspiegabile dell’aiuto divino, sia presente nella nostra anima.  Ma se la gioia proviene dagli abissi della nostra interiorità, allora  tocca a noi, dice Eugenio Borgna:

 <<[…] ricercare le orme della gioia, della sua estrema fragilità, nei volti e negli occhi, nel sorriso e negli sguardi di chiunque incontriamo in vita. Non la inaridiamo con la nostra gelida disattenzione>>.

giovedì 2 giugno 2016

INTERVISTA PRF.PEGORARI

LA POESIA NELL’ERA DELL’INDUSTRIA CULTURALE
Intervista a Daniele Maria Pegorari, docente di Letteratura italiana contemporanea e di Sociologia della letteratura nel Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Bari “A. Moro”
a cura di Enrico Castrovilli

-   La critica letteraria dialoga ancora con la poesia?
La poesia è quasi il solo ambito in cui la critica abbia ancora un suo ruolo e uno spazio atteso e ricercato sia dall’autore che dal critico; ciò dipende dalla sostanziale autonomia della poesia dall’industria culturale, che invece ha progressivamente assorbito tutto il resto del processo letterario, trasformandolo in una ‘filiera’ in cui la scrittura occupa solo il primo segmento, al quale seguono quelli della pubblicazione, della diffusione e della lettura. Il critico entra in gioco in quest’ultimo segmento (egli è, infatti, un tipo particolare di lettore), ma la letteratura gli giunge profondamente trasformata rispetto alla genesi autoriale. L’attuale critica letteraria – che non può non misurarsi con la sociologia della letteratura – deve considerare non solo i tradizionali campi dell’intentio auctoris e dell’intentio lectoris (che il compianto Eco suggeriva di scoprire nell’interazione presente nell’intentio operis, indagabile filologicamente e semioticamente), ma anche, per così dire, quello dell’intentio editoris. Voglio dire che il critico letterario è costretto a ragionare non più su un ‘testo’ (sulle sue caratteristiche formali, sul suo significato, sul suo valore storico, sul suo pregio artistico), ma su un ‘libro’, che soverchia tutti gli elementi ora elencati, con la sua natura di oggetto industriale, da valutare in base al successo, alla tipologia della distribuzione, al rapporto di contiguità/devianza rispetto all’orizzonte d’attesa.
In un contesto siffatto, il libro, prima di arrivare ai lettori, ‘appartiene’ a una serie di figure (l’autore, l’editore, il venditore) che non hanno alcun interesse a conoscere il giudizio critico; piuttosto hanno bisogno di ‘comunicatori’ del libro, cioè di agenti della sua promozione, e in effetti la maggior parte della critica si è trasformata in giornalismo letterario, le recensioni si sono ridotte a segnalazioni oppure sono sostituite dai ‘passaggi’ televisivi o dal battage della stampa generalista. Il romanziere d’oggi non è interessato a ricevere attenzione da parte di uno studioso e, anzi, considera controproducente l’analisi della propria opera. Al contrario i poeti (e ne ho incontrati tanti in quasi un quarto di secolo, dai maggiori ai minimi), avendo messo da parte l’obiettivo della diffusione di massa, cercano il contatto col critico, lo considerano il loro primo lettore e non tanto perché il loro commento aiuti nella comprensione o perché possa far crescere il prestigio dell’opera, ma perché poeta e critico si riconoscono il più delle volte come coautori di un comune processo di costruzione del linguaggio, compagni di strada in una condivisa ricerca di significato.

-                     Dopo gli anni Novanta del secolo scorso, attualmente che genere di poesia gira in Italia e soprattutto in Puglia?
Nel primo quindicennio di questo secolo XXI si è assistito a livello nazionale all’esaurimento della neoavanguardia, che ancora nel ventennio precedente aveva imposto la supremazia del significante, e al trionfo di due fenomeni: da un lato quello della neodialettalità (si pensi al pugliese Angiuli, ai veneti Ruffato e Franzin, alla lucana Finiguerra), che nel rapporto con le lingue ha assunto su di sé quella funzione sperimentale che la poesia della tarda modernità deve avere, ma che non può declinarsi più in chiave neoavanguardistica; dall’altro quello del realismo (soprattutto quello civile del pesarese D’Elia e quello ‘materico’del milanese Oldani e del romano Magrelli) che pare riprendersi il campo per reazione al disimpegno della letteratura e dell’intellettuale, tipico della società della globalizzazione e della crisi della politica. La Puglia è una delle regioni più dinamiche sul fronte poetico nazionale: guardando agli autori che hanno dai 25 ai 50 anni, o giù di lì, le linee predilette sono quella di una poesia ‘metropolitana’, più dura e fortemente concettuale, e quella di una poesia cantata, più intima e tradizionalmente lirica.

-                     Nell’era della velocità, una composizione in versi cosa deve o può proporre al probabile lettore?
Nulla, se pensa di avere vantaggio dalla brevità dell’espressione: la potenza di un verso breve di D’Annunzio, Ungaretti o Luzi o di un ‘osso’ di Montale sta in un meccanismo di concentrazione semantica che non ha niente a che vedere con la velocità di un sms o di un tweet. La poesia ha bisogno di un lettore che sia educato alla lentezza del pensiero, non alla velocità del consumo. D’altra parte sappiamo che i lettori forti (che si indirizzano in prevalenza verso il romanzo) non cercano la brevità e si affezionano molto a libri ponderosi. La forza della poesia di oggi, dunque, non può risiedere in una grottesca concorrenza alla comunicazione newmediale (persa in partenza) ma, al contrario, nella proposta di ampie strutture, di discorsi organici che restituiscano al lettore la speranza di una reazione alla liquidità cui sono condannati. Si legge per consistere, per sottrarsi all’angoscia della morte.

-                     Ma per concepire «ampie strutture» occorrono conoscenze ‘tecniche’: per scrivere versi, dunque, non basta la ‘vocazione’?
Proprio così, ma non basta la sola conoscenza della tecnica. Per la poesia vale ciò che diremmo della musica o delle arti visive: si può essere ‘i primi della classe’ nelle pratiche artistiche, ma totalmente privi di creatività, di genio, di originalità e, dunque, incapaci di diventare artisti. Per converso, si può avere una grande intuizione, ma senza la conoscenza delle strategie formali e senza la consapevolezza della storia culturale che c’è dietro, si potrà anche fortunosamente concepire una buona poesia, ma mancherà il respiro per la costruzione di un intero libro di valore.

-                     Nel ‘postmoderno’ c’è ancora spazio per la poesia?

Se con quella parola intendiamo, come sostengo, l’intera epoca contemporanea, non solo ritengo che ci sia spazio per la poesia, ma penso che essa sia la forma di scrittura che ha consegnato all’Occidente i maggiori capolavori in grado di guardare senza filtri lo squarcio prodotto dalla fine della modernità: La giovane Parca di Valéry, La terra desolata di Eliot, Le occasioni di Montale, I Cantos di Pound, Jukebox all’idrogeno di Ginsberg, Per il battesimo dei nostri frammenti di Luzi e molti altri ancora. Ma se, invece, ci si riferisce a un movimento culturale proprio degli ultimi decenni (il postmodernismo), caratterizzato dalla resa dell’arte alla cultura di massa, la poesia ricopre il ruolo della sua vittima prediletta, per quella sua costitutiva resistenza alla banalità che aveva teorizzato Adorno.