LA POESIA
NELL’ERA DELL’INDUSTRIA CULTURALE
Intervista a
Daniele Maria Pegorari, docente di Letteratura italiana contemporanea e di Sociologia
della letteratura nel Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Bari
“A. Moro”
a cura di Enrico Castrovilli
- La critica letteraria dialoga ancora con la
poesia?
La poesia è quasi il solo ambito in cui
la critica abbia ancora un suo ruolo e uno spazio atteso e ricercato sia dall’autore
che dal critico; ciò dipende dalla sostanziale autonomia della poesia
dall’industria culturale, che invece ha progressivamente assorbito tutto il
resto del processo letterario, trasformandolo in una ‘filiera’ in cui la scrittura
occupa solo il primo segmento, al quale seguono quelli della pubblicazione,
della diffusione e della lettura. Il critico entra in gioco in quest’ultimo
segmento (egli è, infatti, un tipo particolare di lettore), ma la letteratura gli
giunge profondamente trasformata rispetto alla genesi autoriale. L’attuale
critica letteraria – che non può non misurarsi con la sociologia della
letteratura – deve considerare non solo i tradizionali campi dell’intentio auctoris e dell’intentio lectoris (che il compianto Eco
suggeriva di scoprire nell’interazione presente nell’intentio operis, indagabile filologicamente e semioticamente), ma
anche, per così dire, quello dell’intentio
editoris. Voglio dire che il critico letterario è costretto a ragionare non
più su un ‘testo’ (sulle sue caratteristiche formali, sul suo significato, sul
suo valore storico, sul suo pregio artistico), ma su un ‘libro’, che soverchia tutti
gli elementi ora elencati, con la sua natura di oggetto industriale, da
valutare in base al successo, alla tipologia della distribuzione, al rapporto
di contiguità/devianza rispetto all’orizzonte d’attesa.
In un contesto siffatto, il libro, prima
di arrivare ai lettori, ‘appartiene’ a una serie di figure (l’autore,
l’editore, il venditore) che non hanno alcun interesse a conoscere il giudizio critico;
piuttosto hanno bisogno di ‘comunicatori’ del libro, cioè di agenti della sua
promozione, e in effetti la maggior parte della critica si è trasformata in
giornalismo letterario, le recensioni si sono ridotte a segnalazioni oppure
sono sostituite dai ‘passaggi’ televisivi o dal battage della stampa generalista. Il romanziere d’oggi non è interessato
a ricevere attenzione da parte di uno studioso e, anzi, considera
controproducente l’analisi della propria opera. Al contrario i poeti (e ne ho incontrati
tanti in quasi un quarto di secolo, dai maggiori ai minimi), avendo messo da
parte l’obiettivo della diffusione di massa, cercano il contatto col critico,
lo considerano il loro primo lettore e non tanto perché il loro commento aiuti
nella comprensione o perché possa far crescere il prestigio dell’opera, ma
perché poeta e critico si riconoscono il più delle volte come coautori di un
comune processo di costruzione del linguaggio, compagni di strada in una
condivisa ricerca di significato.
-
Dopo gli anni
Novanta del secolo scorso, attualmente che genere di poesia gira in Italia e
soprattutto in Puglia?
Nel primo quindicennio
di questo secolo XXI si è assistito a livello nazionale all’esaurimento della neoavanguardia,
che ancora nel ventennio precedente aveva imposto la supremazia del
significante, e al trionfo di due fenomeni: da un lato quello della
neodialettalità (si pensi al pugliese Angiuli, ai veneti Ruffato e Franzin,
alla lucana Finiguerra), che nel rapporto con le lingue ha assunto su di sé
quella funzione sperimentale che la poesia della tarda modernità deve avere, ma
che non può declinarsi più in chiave neoavanguardistica; dall’altro quello del
realismo (soprattutto quello civile del pesarese D’Elia e quello ‘materico’del
milanese Oldani e del romano Magrelli) che pare riprendersi il campo per
reazione al disimpegno della letteratura e dell’intellettuale, tipico della
società della globalizzazione e della crisi della politica. La Puglia è una
delle regioni più dinamiche sul fronte poetico nazionale: guardando agli autori
che hanno dai 25 ai 50 anni, o giù di lì, le linee predilette sono quella di
una poesia ‘metropolitana’, più dura e fortemente concettuale, e quella di una
poesia cantata, più intima e tradizionalmente lirica.
-
Nell’era della
velocità, una composizione in versi cosa deve o può proporre al probabile
lettore?
Nulla, se pensa
di avere vantaggio dalla brevità dell’espressione: la potenza di un verso breve
di D’Annunzio, Ungaretti o Luzi o di un ‘osso’ di Montale sta in un meccanismo
di concentrazione semantica che non ha niente a che vedere con la velocità di
un sms o di un tweet. La poesia ha bisogno di un lettore che sia educato alla
lentezza del pensiero, non alla velocità del consumo. D’altra parte sappiamo
che i lettori forti (che si indirizzano in prevalenza verso il romanzo) non
cercano la brevità e si affezionano molto a libri ponderosi. La forza della
poesia di oggi, dunque, non può risiedere in una grottesca concorrenza alla
comunicazione newmediale (persa in partenza) ma, al contrario, nella proposta
di ampie strutture, di discorsi organici che restituiscano al lettore la
speranza di una reazione alla liquidità
cui sono condannati. Si legge per consistere, per sottrarsi all’angoscia della
morte.
-
Ma per concepire
«ampie strutture» occorrono conoscenze ‘tecniche’: per scrivere versi, dunque,
non basta la ‘vocazione’?
Proprio così, ma
non basta la sola conoscenza della tecnica. Per la poesia vale ciò che diremmo della
musica o delle arti visive: si può essere ‘i primi della classe’ nelle pratiche
artistiche, ma totalmente privi di creatività, di genio, di originalità e,
dunque, incapaci di diventare artisti. Per converso, si può avere una grande
intuizione, ma senza la conoscenza delle strategie formali e senza la
consapevolezza della storia culturale che c’è dietro, si potrà anche
fortunosamente concepire una buona poesia, ma mancherà il respiro per la
costruzione di un intero libro di valore.
-
Nel ‘postmoderno’
c’è ancora spazio per la poesia?
Se con quella
parola intendiamo, come sostengo, l’intera epoca contemporanea, non solo
ritengo che ci sia spazio per la poesia, ma penso che essa sia la forma di
scrittura che ha consegnato all’Occidente i maggiori capolavori in grado di
guardare senza filtri lo squarcio prodotto dalla fine della modernità: La giovane Parca di Valéry, La terra desolata di Eliot, Le occasioni di Montale, I Cantos di Pound, Jukebox all’idrogeno di Ginsberg, Per il battesimo dei nostri frammenti di Luzi e molti altri ancora.
Ma se, invece, ci si riferisce a un movimento culturale proprio degli ultimi
decenni (il postmodernismo), caratterizzato dalla resa dell’arte alla cultura
di massa, la poesia ricopre il ruolo della sua vittima prediletta, per quella
sua costitutiva resistenza alla banalità che aveva teorizzato Adorno.
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