lunedì 18 dicembre 2017

IL RITORNO RACCOLTA POSTUMA DI NINO PINTO

Ho ricevuto in dono il libro del defunto scrittore salentino Nino Pinto, una raccolta di agili versi, portati alla luce dal prefatore con l’intento di “familiarizzare con un canto di singolare suggestione e intensità” pagg.9,10. 
 Noto al grande pubblico di Prato (Firenze), città d’adozione dove aveva trascorso la maggior parte della sua esistenza come insegnate prima e poi lessicografico, Nino Pinto nato a Lecce nel 1928 e morto nella sua città natale il 6 aprile 2016, allievo del linguista Bruno Migliorini e con cui si  laureò nel 63 a Firenze, è  autore di 19 raccolte di poesie e della sua ultima fatica letteraria dal titolo Il RITORNO, recuperata dalla sensibilità letteraria di Andrea Scardicchio e pubblicata da Genesi Editrice, 2017, pag. 224
 Arricchito da una ottima Premessa dell’Editore e dalla dotta Prefazione del Professore Andrea Scardicchio il libro si apprezza per l’originalità, la schiettezza d’animo e  la diversa tonalità delle emozioni, che sono le ali su cui l’arte si abbandona.
Ed è proprio il potere testimoniale della sincerità d’animo e dei toni emotivi aperti, senza ombre dei suoi più intimi pensieri, a esprimersi nelle parole scelte per descrivere una zampillante fonte interiore, che concede poco o nulla alla distrazione di un io alle prese con i giochi del quotidiano o con le ideologie del mondo. Ma al contrario, il lavoro di scavo diventa una sorta di analizzatore-costruttore d’immagini illuminate di contenuti concreti su uno sfondo di dignità e a volte di minuta serenità.
 Al di là di questa breve nota introduttiva, IL RITORNO è davvero un libro interessante non soltanto per la qualità intrinseca dell’opera, ma anche in virtù della coerenza della visone poetica che ne ha contraddistinto l’ultimo tessuto biografico dell’autore.
Ricco di questa tensione interna, Pinto spinge il linguaggio a concretizzare e a rendere manifesto tutto ciò che il cuore può dire. Aprirsi al mondo esterno significa, soprattutto per l’autore, riconoscere di portare alla luce, di comunicare la naturalezza dell’emozioni, di fare dei propri versi una forma di messaggio e di dare un senso alla propria esistenza.
 Entrare, quindi, in questo microcosmo così ordinatamente costruito e pieno di luci e di ombre e dare un senso alle possibili aperture bisogna certamente essere in consonanza con la voce interiore dell’autore. Non solo. Per cogliere e rendere  fluidi e visibili le sue intenzioni occorre percorrere  con pacata attenzione quelli che appaiono i punti più importanti nel libro e le possibili chiavi di lettura.
  Innanzitutto la scoperta di nuovi paesaggi dell’anima, più veri. Di conseguenza la poesia acquista nuovi valori in cui troviamo sentimenti ed emozioni di varia intensità emotiva. Leggiamo alcuni esempi:
“È sospiro
  d’anima
  il ritorno.”.
E di seguito:
Strazia l’anima
 la lontananza”,
ancora;
S’insedia
nell’anima
la pena
del distacco”  .
Per Nino Pinto la poesia dell’anima, pacata e silenziosa ma ferma, più che il grido afono di una coscienza provocatrice è testimonianza del profondo malessere psichico dell’artista. 
Seguendo questa interpretazione, rileviamo che le emozioni sorgono ininterrottamente come in un monologo, di verso in verso, con un ritmo serrato, con una voce cristallina e dolce che invita a riflettere sulla desolante realtà offerta all’occhio vigile dell’essere pensante. È il caso della gioia, emozione fragile, che si riversa come un fiume nel mare:
“È gioia
che si comunica
il ritorno”.
 Continuando la lettura
“È  la gioia tanto più viva
 Che segue a un lungo dolore
E ancora.
“È circonfusa
di poesia
la gioia
del ritorno”.
Infine:
Sarà l’indicibile gioia
 di muoversi senza catene”.
A seguire:
Sono passi di gioia
   passi
che si avvicinano”.
 A questo punto, per aggiungere qualcosa  alle prime considerazioni, possiamo dire che la gioia è una emozione lieve che ci invita vivamente a meditare con attenzione  sul mistero che avvolge  la sfera globale  di tutte le esperienze di un essere umano  e, nel contempo, anche sulla sua  capacità di resistere alle intemperie generate dalle tribolazioni, dalle paure, dai dolori della vita, nonostante la sua fragilità.
Da quanto detto possiamo affermare che Pinto appartiene alla grande schiera dei poeti che credono nella poesia come mezzo di comunicazione delle emozioni
nelle forme varie della vita vissuta dell’ambiente umano in cui operano.
 Leggiamo qualche esempio. Per comunicare un disagio esistenziale:
 “È sempre
in cammino
l’ansia
del ritorno”.

“È l’ansia
del ritorno
che non si fida”,

 o attimi di serenità:

“Dà nuovo
slancio
la fiducia”,

oppure la persona sofferente:

“Felicità
 che ha l’impatto
 d’un dolore”.
 La varietà tonale delle emozioni di queste poesie è veicolata da un io poetico in un flusso interrotto di sensazioni, piano e limpido.
  Quest’ultima raccolta di poesie postume, dunque, testimonia la vocazione di Nino Pinto a descrivere attraverso le parole sensazioni profonde, stati d’animo, disagi esistenziali tramite una tastiera linguistica e compositiva costantemente tenuta sotto il controllo di un io  sobrio e rigoroso, di asciutta e serena capacità meditativa.


                                                                           Enrico Castrovilli

venerdì 1 dicembre 2017

IL DUBBIO TRA NORMALITÀ' E PATOLOGIA

Secondo gli psicologi nella società contemporanea vi sono forme di dubbio patologico piuttosto comuni ( le prenderemo in considerazione di seguito); per altri studiosi, invece, il dubitare è abbastanza legittimo. Anzi, aggiungono, è basilare, constatato che è proprio sul bagaglio culturale del dubbio si è inserita la tradizione filosofica e scientifica dell’occidente. E il Cogito ergo sum di cartesiana memoria ne è il testimone indiscusso. E concludono dicendo che chi non fa domande, non giunge mai ad alcuna scoperta. Oltre al dubbio rimangano solamente il fanatismo, il dogma, la massima.
 Certamente, un dubbio è di questa natura proprio perché non vi è nessuna certezza, perciò in nessun caso il dubbio deve recare una condanna, difatti persino la nostra tradizione giuridica si fonda sulla presunta innocenza.
 In breve, un dubbio è un dubbio, e come tale può restare indefinitamente. È legittimo, anzi sano averne e non implicare alcuna presa di posizione. Senza schierarsi, non esiste contrapposizione e dunque non ha senso nessuno scontro. Tra i dubbiosi ci può essere confronto sincero, fecondo e aperto, proprio perché nessuno ama restare tra color che son sospesi. I processi naturali mirano in modo naturale a una risoluzione. Come un macigno che rotola giù dal  colle, e prima o poi si arresta, così il dubbioso ama cercare di capire, perché vuole risolvere e trovare sollievo rispetto all’ansia dell’incertezza.
 Gli psicologi, invece, sostengono che  la predisposizione dell’essere umano a trovare una spiegazione razionale a ogni problema, anche a domande da tralasciare per la loro assurdità , può diventare una insidia molto pericolosa.
 Cercare, infatti, di dare una risposta logica a un dubbio è come spalancare l’uscio, andare oltre l’ingresso, per poi trovarsi di fronte ad altre due porte con il bisogno di sceglierne una, di conseguenza aprirla, superarne la soglia, per trovarne di fronte altre tre, poi cinque, poi sette e così via.
 Accade ciò in quanto ogni risposta razionale a un dubbio, che non può essere districato razionalmente, nascono senza sosta altre domande la cui risposta genera altrettanti punti interrogativi, incrementando un circolo vizioso infinito. Logico esito: arresto totale dell’individuo nella sua vita quotidiana.
 Un dubbio spesso frequente negli adolescenti, ad esempio, è quello riguardante l’inclinazione alla sfera sessuale:<<Sono etero, omo o bisessuale?>>.  È chiaro che la risposta a questo dubbio è insita nelle sensazioni avvertite di fronte ad uno dello stesso sesso o di fronte ad una donna e non tanto nelle argomentazioni.
 Va da sé che cercare di far chiarezza sulle proprie naturali tendenze sessuali proietta oscure ombre e alimenta i dubbi. Si tratta di un circolo vizioso tra pensieri e sensazioni che complica il problema invece di risolverlo.
 Il soggetto, cascato nel suo stesso tranello, è di solito portato a cercare ulteriori prove sul proprio genere sessuale, persino a mettere in pratica veri e propri esperimenti per verificare l’effetto su di sé, producendo ulteriori incertezze e confusioni, nella maggioranza dei casi accompagnate da “sensazioni di colpa o di disagi”., (G. Nardone, G. De Santis, Cogito Ergo soffro, Ponte alle Grazie, 2011).
 Un altro esempio di un sofferto cammino dell’individuo succube del dubbio, è in rapporto con la volontà e l’impegno di respingere razionalmente pensieri insinuatisi arbitrariamente che inquietano la tranquillità mentale. In questa circostanza la lotta è tra il pensiero  e il pensare: cioè, tramite il pensare ragionevolmente si tenta di invalidare un pensiero illogico o semplicemente fuori luogo.
 Per concludere possiamo dire che il dubbio è normale, anzi possiamo aggiungere che può essere considerato un elemento sano, saggio, proprio perché indicatore di persona matura, che sa riflettere su quello che le sta accadendo, che sta facendo e si interroga sua quale sia il gesto, l’aspetto e/o la risposta più adeguata.
 Il fatto importante è come sempre l’equilibrio: il dubbio “sano” spinge a riflettere e a trovare una soluzione soddisfacente.


  


sabato 25 novembre 2017

mercoledì 15 novembre 2017

LA FOBIA UN'EMOZIONE NEGATIVA

La fobia è una paura estrema, irrazionale e sproporzionata per oggetti, situazioni, animali, persone che non rappresentano una reale minaccia e con cui gli altri individui si confrontano senza particolari tormenti psicologici. Le più frequenti sono le fobie sociali, come la paura di parlare in pubblico e le fobie specifiche, come la paura di volare, degli insetti, dei cani, dei gatti e così via.
 Il soggetto affetto da una fobia è perfettamente conscio di riconoscere che la sua paura  è assurda e che non dipende da un reale pericolo dell’oggetto, attività o condizione temuta, ma che i suoi motivi  si trovano altrove, ossia nel proprio percorso evolutivo,  nonostante  molti  previlegiano convivere con fobie angosciose e limitanti invece di capirne le origini e liberarsene, avendo timore anche nei confronti di un altro percorso che lo conduce non soltanto di liberarsi dei sintomi molesti ma anche delle nuove  limitazioni ad essi congiunti, venendo a conoscenza delle cause.
 Le fobie, quindi, non sono altre che paure ingiustificate di animali o di una particolare situazione, il contatto con i quali determina nella persona una intensa reazione di paura o angoscia.
 Una persona che soffre di una fobia, come ad esempio la paura dei gatti e dei ragni, può accadere di essere sopraffatta dal terrore, al solo pensiero di entrare in contatto con un piccolo e docile animale, come un gattino anche neonato o anche con una timida lucertola. Questo succede pure per azioni svolte in modo naturale da moltissime persone (passare per un luogo aperto, andare in un negozio, partecipare a un congresso e così via). Pertanto se la persona, ad esempio, soffre di claustrofobia entrerà in un esagerato stato d’ansia fino al terrore, al pensiero di essere costretta ad entrare in un treno o nella metropolitana perché la paura di cui diventerà preda, sarà quella di non poter uscire come vorrebbe se all’improvviso ci fosse un pericolo.
 Le persone colpite da disturbi fobici, sono coscienti dell’assurdità del loro disturbo, ma nel contempo non hanno la forza di controllare la loro paura. L’ansia generata dalla fobia, rivela una serie di espressioni a livello psicofisiologico.
 A tale livello i sintomi più comuni sono i seguenti: vertigini, extrasistole, tachicardia, disturbi gastrici con nausea, diarrea, senso di soffocamento, disturbi urinari, rossore, sudorazione eccessiva, tremore e spossatezza.
 Un comportamento particolare che mettiamo in atto quando abbiamo paura è quello della fuga dalla situazione temuta, che negli uomini delle caverne era finalizzato alla propria salvaguardia. D'altronde, quando si ha paura di qualcosa, si sta male ed è abbastanza normale voler fuggire: la fuga è un’ottima tattica di emergenza.
 Sin qui abbiamo parlato di fobie specifiche, resta di analizzare brevemente quelle di origine sociale.
 Per fobia sociale s’intende la paura di prendere iniziative di fronte agli altri, nel   timore che il proprio agire possa mostrarsi sgradevole o umiliante per colui che le fa e di ricevere come esito dei giudizi negativi. In breve consiste in una fobia che porta ad evitare all’incirca la maggioranza dei momenti sociali, per paura di commettere  qualche azione errata e di conseguenza essere giudicati male per questo. Le persone affetta da fobia sociale,  temono circostanze in cui sono costretta a produrre qualcosa davanti agli altri, come per esempio presentare una relazione o semplicemente parlare con amici ma spesso solo magiare o fare una telefonata in presenza di altri. Le persone con fobia sociale sono moltissimo timorose che i segni della propria ansia siano o diventino manifesti agli occhi degli altri, come la loro tendenza ad arrossire e sudare facilmente, oppure avere degli attacchi di aritmia cardiaca.
 Per concludere un consiglio utile per affrontare fobie è quello di fare una lista delle situazioni o delle paure che limitano la nostra vita e che desideriamo superare: immaginate ad esempio quella specifica situazione e analizzate attentamente le possibili reazioni. Qual è l’azione che ci fa più paura? Come possiamo superarla senza fuggire? Quali sono i nostri punti fragili, ma anche le nostre potenziali energie interne?
 Successivamente proviamo ad esporci in modo graduale alle situazioni che causano la fobia, valorizzando i risultati ottenuti, per quanto minimi. Occorre essere decisi nel perseguirli e premiarsi ogni qual volta che se ne ottiene un successo. Anche un piccolo risultato positivo è già un grande vittoria.


  



mercoledì 1 novembre 2017

L'ABBANDONO EMOZIONE DA CONOSCERE

La paura di essere abbandonati è un’esperienza abbastanza comune tra le persone, ovvero il timore di rimanere soli, per sempre privi di un legame affettivo, senza che nessuno si occupi di loro. Ciascuno di noi, infatti, può avvertire il timore di essere abbandonato, ma in linea generale la maggior parte ci convive senza alcuna conseguenza specifica.
 Alle volte questa paura non è correttamente amministrata e di conseguenza si tramuta in vera e propria sindrome tramite l’espressione di un disagio psichico fino all’angoscia più nera o alla depressione.
  Questa emozione può colpire sia i bambini (in modo particolare verso la figura materna), sia gli adulti. Si ha paura che la persona cara possa andare via o addirittura morire e si rimane sempre della certezza che nonostante il tutto proceda bene prima o poi si finirà soli. Ci si avverte uno stato emotivo dipendente dall’altra persona e non si ammettono le separazioni, anche di breve durata, per la paura di non avere più la relazione di intimità.
 Predisposizione naturale o famiglie in cui lutti o veri abbandoni sono stati trascurati o peggio ignorati, questi elementi possono causare nei componenti la sindrome che procura una disposizione patologica di cui non si riesce più a controllarla.
 Nella persona adulta che patisce di sindrome dell’abbandono è come se dominasse un pezzo bambino che necessita di cure. Quel bambino triste costituisce la parte infantile che è stata trascurata emotivamente. Non ci si rende conto che le cure verso quel bambino trascurato possono essere offerte dall’adulta che è diventata.
 Da tale fragilità interiore si palesano tutta una serie di comportamenti nocivi che mirano ad esorcizzare l’abbandono da parte dell’altro: gelosia morbosa, controllo esagerato, ricatti morali, annullamento di sé e la perdita di imparzialità nei riguardi della relazione. Tutti indicatori che se non sono tenuti adeguatamente a bada vanno  inevitabilmente a concludersi in una dipendenza affettiva con tutte le conseguenze che molto bene conosciamo.
 Per poter superare un abbandono occorre il tempo solamente se impariamo ad utilizzarlo: serve per apprendere la radice del dolore, serve per capire come mai viviamo un allontanamento come un abbandono, serve per comprendere che inutili sensi di colpa ci allontanano solo dal cuore del problema, serve a prendere coscienza delle proprie responsabilità, che non significa necessariamente colpe. Il tempo serve a superare l’abbandono quando quello spazio temporale a nostra disposizione impariamo ad attraversarlo, quando apprendiamo a contattare il tempo in cui si è verificato quello specifico abbandono remoto che ci impedisce di svolgere le nostre attività quotidiane e i nostri rapporti sociali in modo sereno, quando impariamo a vivere i nostri rapporti interpersonali senza caricarli del fardello dei nostri fantasmi.
 Certamente l’abbandono è un’emozione che si può superare, tuttavia non esiste un unico metodo per metterlo in atto, pertanto non facciamoci incantare da patetici video o da moltissime ricette che ci narrano con voce suadente il modo con cui guarire le ferite. Per poter superare un eventuale abbandono ognuno di noi deve poter trovare il metodo di guarire la propria ferita. Che scotta terribilmente. Ma a bruciare non è la perdita attuale della persona amata o di un lavoro, ma il dolore remoto che quello attuale ha soltanto risvegliato.
 Superare l’abbandono è possibile, realizzabile, bisogna trovare la forza dentro di sé per mettersi in discussione, per andare a cercare un modello diverso di affrontare le avversità della vita. Per cui, percepiamo la rabbia, la tristezza o la gelosia quando arrivano, senza forzarci di mandarle via, solo così verranno messe in campo nuove energie psichiche per trovare le soluzioni più giuste per noi.

 In questo modo, scopriremo che mentre si chiude una porta, si aprono nuove possibilità, ad esempio, si ripropone un incarico di lavoro che aspettavamo da tempo o arriva una certa telefonata inaspettata che apre nuovi orizzonti, interessi  o modi di essere.

lunedì 30 ottobre 2017

Presentazione del saggio "DAL MONDO DELLE EMOZIONE" DI ENRICO CASTROVILLI".
San Vito dei Normanni, 27 Ottobre 2017.
Da sinistra Il Prof. Luigi Agrimi Presidente di UNITRE. Al centro l'Autore. a destra il Dott: Ernesto Marinò Dirigente scolastico. 

venerdì 13 ottobre 2017

IL LINGUAGGIO DELLE EMOZIONI

 Sebbene attualmente i ricercatori discutano ancora sul tempo di reazione in una situazione emozionale – sono prima i sentimenti(il cuore) e poi i pensieri (la ragione) o è il contrario?- noi nella vita relazionale sperimentiamo quotidianamente il linguaggio delle emozioni, con la mediazione di un fenomeno psichico, l’ empatia, che è capace di percepire gli stati d’animo e i sentimenti di un’altra persona e in particolare di condividere la sue sofferenze psichiche.  Ed è l’empatia che, certa della sua capacità di leggere i messaggi, ci rende più abili nel cogliere e interpretare i sentimenti altrui, allorquando saremo più aperti verso le nostre emozioni. 
 Questa capacità, quindi, che ci dà l’opportunità di conoscere le variazioni dell’animo di un essere umano, entra in scena in diverse situazioni, da quelle appartenenti alla sfera privata: relazioni sentimentali di coppia, rapporti tra genitori e figli - a quelle professionali: lavoro dipendente o libero professionista.
  Secondo Daniel Goleman le nostre emozioni raramente usano le parole per rendere visibili le loro presenze, spessissimo sono invece altri segni comunicativi che le rappresentano.  La soluzione possibile, quindi,  per cogliere e rendere intellegibili i sentimenti degli altri  consiste  nell’abilità di leggere i messaggi ,vocali o semantici, che percorrono sentieri  comunicativi non verbali: gli sguardi, il tono della voce, la testa, la postura e così di seguito.
 L’empatia, presente sin dai primi giorni della nostra vita, immergendosi nel mondo soggettivo altrui, legge e comprende le emozioni dell’altro (paura, amore, rabbia, ecc.) espresse con il tono di voci, gesti, espressioni del volto e altre simili in canali non verbali. Insomma, guardare con attenzione e partecipazione ciò che è all’esterno per poter percepire e leggere il contenuto interno dell’altro, un labirinto profondo che è altrimenti inaccessibile con i nostri mezzi. Ed è possibile questa evenienza perché l’empatia ha una funzione di apertura totale verso l’interlocutore, senza alcun pregiudizio, riserva mentale e allo scopo di ottenere un’evoluzione autentica nella relazione tra due persone.
 L’empatia è, quindi, importante nelle relazioni affettive ( genitori-figli), nel lavoro  (professionale, creativo): riuscendo ad immedesimarsi nell’emozioni dell’altro e gestire  le proprie in modo proficuo.
  Sulla base di quanto appena detto, ora qualche considerazione sulle emozioni che rileviamo a volte nelle letture, in conseguenza della nostra interpretazione e comprensione. Vi sono diversi tipi di emozioni, alcune inducono piacere, altre che nascono dalla partecipazione attiva del lettore all’oggetto della lettura. Tipica risposta emozionale di quest’ultima natura a testi narrativi e poetici, è l’empatia.
  Una poesia, un racconto, un romanzo fanno proprie le gioie e le ansie dell’umanità. In quelle riconosciamo noi stessi, la nostra esistenza possibile. L’attenzione intensa sulla paura, sulla pietà, o sui sentimenti intimi dei personaggi ai quali ci rivolgiamo con la lettura dipende dal giudizio d’importanza che noi diano circa ciò che riteniamo giusto e non da un impulso indiscriminato di condivisione.
 A questo punto inizio la visitazione di alcuni testi di autori italiani contemporanei, usando l’espediente intrigante dell’esterno-interno, che è specifico dell’atto di leggere empaticamente, ma di cui non siamo consapevoli.
Tra gli autori del primo Novecento, che secondo l’estetica motivazionale hanno dato libero sfogo alla natura libera dell’uomo, a scoprire la relazione tra la vita intima e la vita quotidiana del singolo individuo, tra la vita quotidiana del singolo e quella della collettività in cui egli vive, sono i triestini  Umberto  Saba e  Italo Svevo (pseudonimo di Aron Hector Schmitz), due involontari e solitari navigatori terrestri, che si pongono sulla via dello scavo interiore, la quale permette loro di viaggiare nel mondo dell’invisibile alla ricerca di ritrovare la coscienza di sé e la sospirata liberazione dell’io dall’angosce e dalle ossessioni.
  Sono del parere che questo tipo di scelta psicologica non impedì a Saba di sentirsi vicino a tutti gli aspetti della vita quotidiana, agli uomini e ai sensi concreti delle cose, che rappresentano solo una parte delle ispirazioni della sue poesie perché egli non sarebbe stato riconosciuto come un uomo del nostro tempo se non avesse sentito questa ispirazione resa opaca anche da una tristezza profonda, da una disperazione insuperabile, dalla sua scissione in due personalità: con un occhio vede le cose migliori e l’altro non sa rinunciare alla propria tristezza, a svincolarsi dalla solitudine che esclude dal ritmo della vita.
 Tante sono le poesie amorose  che posso citare e visitare per cogliere empaticamente il linguaggio delle emozioni rappresentate dai vari segni semantici; preferisco leggere La foglia, daIl canzoniere”(1900-1954),  la cui voce, simile a quella delle Sirene, cattura e mi conduce tra i versi, a rivivere gli stessi stati d’animo del poeta.  
LA FOGLIA
 Io sono come quella foglia – guarda –
sul nudo ramo, che un prodigio ancora
tiene attaccata.
 Negami dunque. Non ne sia rattristata
 la bella età che a un’ansia ti colora,
e per me a slanci infantili s’attarda.
Dammi tu addio, se a me dirlo non riesce.
Morire è nulla, perderti è difficile.
 È autunno. Il paragone con la foglia che sta per cadere è, dal punto di vista stilistico efficace come anche da quello emotivo, perché comunica la tristezza di un’ anima ferita sul punto di abbandonare un sentimento non corrisposto. Nella seconda terzina la supplica,<<Negami>>, mette a nudo il dolore patito dalla defezione dell’essere amato. Da qui le parole spandono molecole di malinconia. Sono le emozioni che comunicano l’incapacità dell’uomo di staccarsi naturalmente, perché <<a slanci infantili s’attarda>>  cioè è trattenuto da una forte carica di intimi sentimenti stipati gelosamente nello scrigno della mente.
Allora <<Dammi tu addio>> implora l’anima disperata, distrutta da un dolore profondo alla persona amata, per porre fine ai tormenti dell’abbandono. Certamente  
nelle ultime parole l’amore raggiunge il suo massimo valore emotivo: è il momento in cui la pena della perdita dell’amata è di gran lunga minore della stessa morte.
  Italo Svevo è uno dei più importanti autori del Novecento italiano. Oltre ai racconti e a qualche piéce in prosa , ha scritto tre romanzi, Una vita, Senilità e La coscienza di Zeno. In questa trilogia  Svevo ha espresso il fallimento dei grandi ideali dell’Ottocento italiano, con un linguaggio ironico e amaro, scavando nella coscienza e rivelando miseria e debolezza della vita umana, osservata però con amorevole e rassegnata tristezza. Qui prenderò in considerazione alcuni frammenti utili al mio discorso dalle pagine l’ultimo libro, “La coscienza di Zeno”, un romanzo vastissimo  la cui narrazione non offre la cronologia, lineare successione degli eventi, ma segue il filo della memoria; i fatti della vita dei protagonisti sono giudicati dallo stesso autore secondo prospettive, modificazioni e ripensamenti che variano nel tempo.
 Dalle varie storie, scelgo non in maniera capillare alcuni frammenti di confessioni del protagonista/autore, senza però dare visibilità ulteriore alla scrittura, ma  per cogliere il linguaggio di alcune emozioni ben inserite nell’introspezione psicologica del nevrotico Zeno. Leggiamo:
<<Una confessione in iscritto è sempre menzognera! Se egli sapesse come raccontiamo con predilezione tutte le cose per le quali abbiamo pronto la frase e come evitiamo quelle che ci obbligherebbero da ricorre al vocabolario…si capisce come la nostra vita avrebbe tutt’altro aspetto se fosse detto nel nostro dialetto>>.
 In questo frammento emerge non una edificazione della menzogna, ma una emozione piacevole, che comunica empaticamente al lettore l’idea del protagonista di vedere la  vita come una commedia.
 <<Tutto ciò giaceva nella mia coscienza a portata di mano. Risorge ora perché non sapevo prima che potesse avere importanza. Ecco che ho registrato l’origine della sozza abitudine e (chissà?) forse ne sono già guarito. Perciò. Per provare, accendo un’ultima sigaretta e forse la getterò via, disgustato>>. 
 È il grande sollievo dell’animo che comunica la sospirata guarigione, dopo numerosi tentativi falliti messi in atto per smettere di fumare.
<<Con uno sforzo supremo arrivò a mettersi in piedi, alzò la mano alto alto, come se avesse saputo ch’egli non poteva comunicarle altra forza che quella del suo peso e la lasciò cadere sulla mia guancia. Poi scivolò sul letto e di là sul pavimento. Morto>>.    Più che imbarazzo per lo schiaffo (Volontario?)  lo stato d’animo di  Zeno sente un fortissimo affetto per il padre,  una devozione  che custodirà  nella sua memoria per  tutta la vita .
<< Non v’è niente di più difficile a questo mondo che di fare un matrimonio proprio come si vuole. Lo si vede dal caso mio ove la decisione di sposarmi avevo preceduto di tanto la scelta della fidanzata. Perché non andai a vedere tante e tante ragazze prima di sceglierne una ?>>. 
 In questa confessione non c’è esitazione. La motivazione a decidere per non decidere è una geniale trovata per non assumersi responsabilità. In fondo, Zeno apprezza le donne, almeno dal punto di vista estetico (la dichiarazione ad Ada e l’amante Carla), tuttavia si affida casualmente nel corso della vita. E le sue scelte accidentali si dimostrano alla fine più convincenti e vantaggiose, a cominciare dalla moglie Augusta Malfenti.
<< Io sono guarito! […] Io sono sano. Da lungo tempo io sapevo che la mia salute non poteva essere altro che la mia convinzione e ch’era una sciocchezza degna di un  sognatore ipnagogico di volerla curare anziché persuaderla>>. 
 È una emozione liberatoria. Si è vero,  Zeno ha raccontato un sacco di storie, ha finto d’essere un malato mentale, ma in fondo, per essere sani non c’è che un mezzo,

persuadersi di esserlo

lunedì 2 ottobre 2017

LA MALINCONIA EMOZIONE CHE GENERA CREATIVITÀ'

Nel linguaggio quotidiano contemporaneo il termine malinconia è un particolare vissuto psicologico, o meglio, uno stato d’animo che tutti sperimentiamo nei momenti di sosta nella nostra vita,  fatto di tristezza non così dolorosa, d’incapacità di avere un rapporto costruttivo con gli elementi del mondo, di angoscia esistenziale. È associato a una emozione positiva, perché conosce i limiti degli avvenimenti e delle cose e, soprattutto, non blocca le iniziative giornaliere in quanto è antitetica alla depressione. In breve, la malinconia positiva è un momento di tristezza indispensabile per l’equilibrio delle emozioni, da assecondare e ascoltare.
  Nella cultura medica, invece, il vocabolo malinconia, in particolare sotto l’egida del padre della psicanalisi, Freud, indica un disturbo psicologico grave, caratterizzato da mancanza di fiducia,  incapacità di provare emozioni, di produrre iniziative e di idee suicide, la depressione appunto.
  A differenza della nostalgia, della tristezza o della depressione, la malinconia può non essere diretta verso alcun oggetto esterno e può costituire per alcune persone un tratto preponderante della personalità, mentre per altre solo alcune fasi della vita. Le persone malinconiche, infatti, si distinguono dalla altre perché chiuse in sé e timide, ma nel profondo sognatrici e romantiche.
  Come stato dell’essere il malinconico ha una capacità immaginativa più degli altri, e quindi è un creativo, basta pensare ai numerosi scrittori, poeti, pittori e musicisti, è  sufficiente citarne qualcuno come Leopardi, Van Gogh, Saba, Proust, Baudelaire, Schopenhauer, che nei secoli hanno fatto della loro malinconia un febbrile ambiente di produzione artistica, che ha permesso di lasciare opere indelebili nella storia della  cultura occidentale.
Scorrendo rapidamente le pagine della letteratura italiana dalle origini ai nostri giorni rilevo che, col trascorrere del tempo storico, il termine letterario di malinconia si diversifica e si specifica in significati distinti e meno sfumati, ricchi di esempi noti e meno conosciuti. Così partendo dall’età di Dante trovo predominante la malinconia amorosa e passando per il periodo di Leopardi caratterizzato dalla caducità , approdo al Novecento dove la malinconia viene analizzata e incanalata dal mondo scientifico in un discorso fatto di paura, di disillusione, di disperazione, al crollo del sogno e delle ideologie.
  Questa contemporanea forma di malinconia dolorosa divora la sensibilità mentale di scrittori, poeti e in generale di artisti, e, per quanto mi riguarda, trova adeguato posto in diverse pagine di Cesare Pavese e di Pier Paolo Pasolini, due intelligenti e coraggiosi intellettuali della  seconda metà del Novecento in Italia, che di seguito analizzeremo.   
  Cesare Pavese è certamente uno scrittore poliedrico capace di dare patine sentimentali e tinte melodiose ai suoi personaggi e nel contempo covare segretamente desideri e oscuri pensieri, che appena velati appaiono nelle pagine de Il mestiere di vivere:
<<Non ci si uccide per amore di una donna, ci si uccide perché un amore qualunque, ci rivela nella nostra nudità, miseria, infermità, nulla>>; in quelle del romanzo La luna e i falò:
<<Quello che restava era come una piazza l’indomani della fiera, una vigna dopo la vendemmia, il tornar solo in trattoria quando qualcuno ti ha piantato>> e ancora nel racconto La spiaggia:
<<Niente è più inabitabile di un posto dove siamo  stati felici>>.
  In questa brevissima panoramica Pavese ci appare un uomo malinconico e pensieroso: si affacciano le certezze dolorose, crollano i sogni, non trova la possibilità di amare un’altra persona. La malinconia perdurante nella sua attività si sta mutando in depressione: si è insinuata oramai la pulsione all’autodistruzione.   
  La personalità di Pier Paolo Pasolini è senza alcun dubbio una delle più produttive e originali della letteratura italiana. Egli è stato, infatti, poeta in lingua e in dialetto, narratore, regista, giornalista e critico militante secondo certi parametri valutativi scomodo, anticonformista, ma atto a suscitare dissenso e scandalo e nel contempo a raccogliere diversi consensi tali che ha lasciato un’orma incancellabile nella cultura italiana del secondo Novecento.
  Dai suoi numerosi scritti, ho tratto i seguenti esempi nei quali Pasolini usa la malinconia come un grimaldello emozionale per evadere da uno stato precario generato da un doloroso pessimismo nei confronti della realtà violentemente degradata.   
   Iniziamo la lettura dalla raccolta Il meglio della gioventù, che racchiude alcuni pensieri più significativi della produzione in versi  di Pasolini, l’autore rivive con malinconia sulla sua coscienza di adulto le prime esperienze di vita, ormai trasformate in nostalgico rimpianto:
<<Venite, treni, portate lontano la gioventù
      a cercare per il mondo ciò che qui è perduto.
    Portate,treni, per il mondo, a non ridere mai più,
      questi allegri ragazzi scacciati dal paese>>.
Segue la poesia Le ceneri di Gramsci, in cui l’amore per il mondo proletario destinato a scomparire, è evidente nella malinconica descrizione finale:
<< È un brusio di vita, e questi persi/ in essa, la perdono serenamente,/ se il cuore ne hanno pieno: a godersi// eccoli, miseri, la sera: e potente/ in essi, inermi, per essi, il mito/ rinasce…Ma io, con il cuore cosciente// di chi soltanto nella storia ha vita,/ potrò mai più con pura passione operare,/ se so che la nostra storia è finita?>>.
  Le tematiche della raccolta di articoli per il Corriere della Sera,   pubblicate col titolo Scritti corsari sono la società italiana contemporanea, i suoi endemici mali e le sue angosce:
<< L’uomo medio dei tempi del Leopardi poteva interiorizzare ancora la natura e l’umanità nella loro purezza ideale oggettivamente contenuta in esse; l’uomo medio di oggi può interiorizzare una Seicento o un frigorifero, oppure un weekend a Ostia>>, in cui è evidente la nostalgia del sottoproletariato di una volta , che era adorabile, mentre quello presente fa schifo.
  Concludo la rassegna con la lettura di alcuni versi di Transumanar e organizzar, una raccolta in cui rilevo la frattura psicologica tra il poeta e il suo tempo storico, che viene da lui avvertita e tradotta in un verso adatto ad esprimerla:
<< Non c’è cena o pranzo o soddisfazione del mondo,
      che valga  una camminata senza fine per le strade povere,
       dove bisogna essere disgraziati e forti, fratelli dei cani.>>.
A questo punto posso concludere dicendo che la malinconia è una emozione positiva che fa parte della nostra quotidianità, vivendola  fino in fondo, può favorire un’attenta introspezione, una nuova ricerca più riservata o nascosta nella nostra interiorità.

sabato 16 settembre 2017

L'INVIDIA UN'EMOZIONE SGRADEVOLE

L’invidia è un’emozione che nasce nell’individuo nel constatare che un suo simile è felice, sta ottimamente con se stesso, è soddisfatto, è riuscito in un suo progetto, un intimo sentimento che a volte assume una intensità tale da far desiderare che il benessere altrui si trasformi in malessere: nell’osservare l’altra persona stabiliamo, senza neanche desideralo, un confronto e questo confronto ci rimprovera  per ciò che non abbiamo e ciò che noi siamo.
 L’invidia è un’emozione sgradevole che difficilmente noi ammettiamo. Nello stato emozionale dell’invidia, l’altra persona con la quale stabiliamo un paragone è il migliore e non importa se quanto gli invidiamo e vorremmo ardentemente per noi gli è costato enormi sacrifici. In alcuni casi, nell’invidioso esiste il desiderio che la persona invidiata perda l’oggetto (bene materiale o affetto) senza che l’invidioso ne tragga poi effettivamente vantaggio. Quando siamo preda dell’invidia, diventiamo ciechi e vediamo solo noi stessi. L’altro funziona come uno specchio e ci mostra, non necessariamente in modo intenzionale, la nostra inferiorità.
 Come abbiamo già detto, nessuno è immune dall’invidia, anche se poi tutti non hanno il coraggio di confessarla. Al limite si può ammette di farsi prendere a volte da scatti d’ira,  di  compiacersi nella  inoperosità o di soffrire per gelosia, ma di essere  logorato dall’invidia proprio no. Secondo gli psicologi l’invidia è l’emozione negativa più rifiutata. Questo perché ha nel suo intimo due elementi infamanti: il primo ammettere di essere inadeguato, il secondo prova di procurare danni all’altro senza confrontarsi a viso aperto ma in modo ambiguo, considerato infelice.
 L’invidia, infatti,  di frequente è distinta dall’antipatia malcelata verso l’altra persona, dal desiderio di danneggiarla, persino dietro la spalle con apprezzamenti maledicenti, e nel contempo di privarla di tutto quello che la rende piacevole, invidiabile.
 Anche un altro elemento distintivo dell’invidia la rende difficile da ammettere, persino a se stessi. Si prova soprattutto per la persona che è simile, per le persone che si considerano paragonabili come condizioni di partenza. Per una donna, ad esempio, è scottante il confronto con un’amica esteticamente più bella e corteggiata, più che quello indefinito e sproporzionato con una top model; per un uomo si invidia il collega d’ufficio che è stato promosso, non il direttore generale.
 Inoltre l’invidia colpisce spesso anche le persone che ci circondano e a cui siamo affezionati, come colleghi, compagni di classe, ma anche amici e parenti: la pari convenienza rende infelice l’essere  al di sotto rispetto ai successi di un fratello o di una sorella,  in un raggio d’azione importante per sé.
 A questo punto diciamo che in fondo l’invidioso non ha lo scopo di danneggiare l’altro direttamente, ma auspica il male dell’altro. Questo perché  non è stato danneggiato realmente e quindi non può agire in modo attivo e apertamente, soprattutto perché la società condanna l’invidia. La società civile, infatti generalmente tendono a scoraggiare gli atti ostili per custodire  i valori sociali.
 Tuttavia dal suo punto di vista l’invidioso non ha tutti i torti. A questo riguardo,  infatti, neanche l’esibizione della superiorità è tollerata dalla società, perché mette in evidenza l’inferiorità dell’altro. 

In conclusione, l’invidia se è ritenuta pericolosa per le altre persone, perché allora proviamo questa emozione? Perché l’invidia è simile alla paura, dicono gli psicologi, la quale è sgradevole ma ci prepara a reagire a un pericolo. È un vero campanello d’allarme: ci avverte velocemente che siamo perdenti nel confronto sociale con l’altro. Ed essere in una posizione inferiore e sicuramente svantaggioso, quindi l’invidia è un’emozione che segnale questo tipo di disagio sociale e ci dovrebbe incitare a uscirne per cui necessariamente deve essere un’emozione spiacevole. 

martedì 5 settembre 2017

LE FERITE DELL'ANIMA

Prima d’iniziare a parlare delle ferite, passiamo, brevemente, in rassegna il contenuto del termine <<anima>> nelle sue differenti forme ed espressioni, rintracciabili nelle varie tipologie antropologiche, culturali e scientifiche di ogni periodo storico.
 Secondo la Bibbia l’anima umana è l’intera persona che può lavorare, desiderare il cibo, mangiare e ubbidire alle leggi.
Per  la concezione cristiana, l’anima è l’elemento spirituale dell’uomo, che con il corpo producono, - nella sua unità, un unicum - , la persona umana vitale.
  Dal punto di vista della filosofia moderna, Hume critica il dualismo di Cartesio, - il corpo e l’anima, percepiti separati che agivano separatamente – parlando dell’anima come un fascio di fatti o eventi psichici in perpetuo movimento. Nel Novecento si è spesso parlato  dell’anima come un principio vitale, non puramente spirituale--razionale, ma inconsapevole.
 In ambito psicologico contemporaneo la psiche, che per gli antichi greci era l’anima, è un complesso di funzioni cerebrali, emotive, affettive, relazionali, pur avendo un aspetto più astratto legato all’inconscio e alla coscienza.
  Va da sé che, da ora in poi parlando di anima, noi intendiamo psiche,  poiché in  psicologia l’uomo è anzitutto psiche, e la psiche è l’essenza dell’uomo stesso.
Passando al tema, diciamo che ogni trauma psicologico, visibile o invisibile, ha effetto profondo sulla psiche e sulle relazioni interpersonali della persona. Esso genera un nuovo e strano mondo fatto di vari strati di dolore. Tuttavia, esiste una varietà soggettiva che riguarda le ferite dell’anima. Queste, infatti, non sono percepite allo stesso modo da tutti. Un evento può accadere di non essere accettato dal punto di vista emotivo – per esempio il senso di vuoto – fino ad avere tragiche conseguenze nell’ambito delle relazioni interpersonali, continuando a mantenere vivo e attivo il suo effetto traumatizzante, attraverso i ricordi. Questo risultato può diventare motivo di disturbo nel vissuto di una persona, mentre potrebbe essere  meno deleterio o vissuto con meno dolore da altre persone.
 Per essere, quindi, considerata una vera ferita psicologica, di fronte a un trauma, la risposta della persona deve comprendere un serie di emozioni tra le quali paura intensa, il sentirsi incapace di agire o addirittura di  avere orrore.
 Quali traumi possono ferire la nostra anima? Intanto bisogna dire che non tutti i traumi sono uguali. Per cui alcuni studiosi addetti alla materia distinguono i traumi in categorie, altri sui principali eventi emozionali.
  In breve per i primi vi sono due categorie di traumi:1)  legati a rapporti interpersonali, cioè eventi della vita quotidiana che, pur apparentemente innocui, se si ripetono, procurano danno psichico alla persona; 2) legati ad eventi profondi che compromettono la stessa esistenza o l’integrità fisica della persona.
 Per gli altri, le più importanti ferite dell’anima sono quelle emozionali: l’abbandono, il rifiuto, l’umiliazione, il tradimento, l’indifferenza e la derisione. Queste ferite profonde bloccano la capacità di essere se stessi e condizionano la stessa vita.
 Dal nostro punto di vista queste ferite emozionali dell’anima, sono esperienze il cui impatto emotivo è così intenso e negativo da produrre nel nostro cervello delle vere cicatrici biologiche che condizionano i nostri comportamenti, le nostre emozioni, la nostra personalità, le nostre capacità relazionali.
 Le cicatrici degli avvenimenti più dolorosi non scompaiono facilmente dal cervello, mostrandone le conseguenze sintomatologiche anche a distanza di decenni.
 Alcuni di questi traumi emozionali sono generati da profondi dolori personali, intimi che la persona colpita non sa come gestire. Altri traumi vengono attivati dalla cosiddetta “memoria traumatica” : la persona risponde con paura, vulnerabilità, orrore, dopo avere assistito ad eventi potenzialmente mortali, con pericolo di morte o di feriti gravi, o una minaccia alla propria integrità psicofisica. Facciamo qualche esempio letterario.
 Dai traumi interni origina la poesia di Amelia Rosselli, i cui versi sono caratterizzati da impulsi emotivi instabili, da gridi afoni di un io poetico che tollera con grande sofferenza psichica gli eventi della vita interiore ed esteriore. Di tale fragilità emotiva sono i segni di molti versi sparsi nelle raccolte che colpiscono il lettore. Alcuni di questi particolari versi sono i seguenti:
<<E il delirio mi prese di nuovo, mi trasformò
      stanca ed ebete in un largo pozzo di paura,
      mi chiamò coi sui stendardi bianchi e violenti
      mi spinse alle porte della follia>> (La libellula).
 Proseguendo l’analisi di questo conturbante discorso poetico, abbiamo rivelato che le parole, senza alcun artificio letterario, portano alla luce gli angoli più bui, più profondi del suo, del nostro essere, che sfuggono al controllo della ragione. Leggiamo alcuni versi:
<<Dissipa tu se tu vuoi questa debole
     vita  che non si lagna. Che ci resta. Dissipa
     tu il pudore della mia verginità; dissipa tu
     la resa del corpo nemico. Dissipa la mia effige.
     Dissipa…dissipa>> (La libellula).
 Si tratta  di un parlare affannoso, debordante di tensione interna da cui nasce una poesia che analizza, cerca di portare alla luce, per quanto possibile, le contraddizioni insite nella sua coscienza.
 E concludiamo questa breve disamina delle ferite dell’anima di Amelia Rosselli con i versi che seguono:
 <<Oh mio fiato che corri lungo le sponde
      dove l’infinito mare congiunge braccio di terra
      a concava marina, guarda la triste penisola
      anelare: guarda il moto del cuore
      farsi tufo, e le pietre spuntate
      sfinirsi
      al flutto>>, e ancora:
<<L’alba ai rintocchi  cade
     sulla mi testa malata
     il difficile umore m’assale

    verde come la paura>>  ( Variazioni belliche).
 Passando alle memorie traumatiche, prendiamo in considerazione alcune composizioni in versi de le POESIE SPARSE E PROSE LIRICHE, che rivelano il travagliato stato d’animo di  Clemente Rebora durante i mesi trascorsi in prima linea, come sottotenente di fanteria nella prima guerra mondiale; un periodo drammatico, di avvenimenti dolorosi, che mostrano chiaramente le conseguenze sintomatologiche anche a distanza di decenni.
  Queste composizioni poetiche vivono un profondo malessere esistenziale, o meglio una tensione interna che esprime senza formalismi retorici un insieme di amarezze,  delusione, stordimento e smarrimento:   
 <<[…] Tra melma e fango
       tronco senza gambe
       e il tuo lamento ancora,
       pietà di noi rimasti
       a rantolarci e non ha fine l’ora,
       affretta l’agonia,
       tu puoi finire  […]  (VIATICO),
 e quando il disagio psichico aumenta sfociando in un dolore e in un’angoscia insopportabile, il poeta avverte un senso di vuoto come un’anima persa, intimidita, spaurita:
<< […] Fungaia
      d’un morto saponava la terra; a divano. Forse
      […] Feci come per tergerlo al cuore – ma
              Viscido anche il mio cuore. Perdono? […] (Perdono?),
e continuando la nostra lettura incontriamo nuovi squarci di umana sofferenza:
<<C’è un corpo in poltiglia
     Con crepe di faccia, affiorante
     Sul lezzo dell’aria sbranata.
     Frode la terra.
     Forsennato non piango:
     Affar di chi può, e del fango […] (Voce di vedetta morta).
Da questa breve sintesi di versi la figura umana e psicologica di Rebora emerge nella sua fragilità, nella sua vulnerabilità emotiva e nella sua incapacità di superare vicende drammatiche. Nelle sue parole si può cogliere un insieme di dolore, di paura e di angoscia, cicatrici indelebili dell’esperienze di una guerra che destabilizzò psicologicamente il poeta.

  Ogni tipo di trauma, dunque, lascia evidenti tracce negative e invisibili nella nostra mente, che, nel breve o lungo periodo della propria esistenza, condiziona i nostri normali modelli comportamentali, le emozioni e le relazioni sociali.