lunedì 30 ottobre 2017
venerdì 13 ottobre 2017
IL LINGUAGGIO DELLE EMOZIONI
Sebbene
attualmente i ricercatori discutano ancora sul tempo di reazione in una
situazione emozionale – sono prima i
sentimenti(il cuore) e poi i pensieri (la ragione) o è il contrario?- noi
nella vita relazionale sperimentiamo quotidianamente il linguaggio delle
emozioni, con la mediazione di un fenomeno psichico, l’ empatia, che è capace di percepire gli stati d’animo e i sentimenti
di un’altra persona e in particolare di condividere la sue sofferenze
psichiche. Ed è l’empatia che, certa
della sua capacità di leggere i messaggi, ci rende più abili nel cogliere e
interpretare i sentimenti altrui, allorquando saremo più aperti verso le nostre
emozioni.
Questa capacità, quindi, che ci dà
l’opportunità di conoscere le variazioni dell’animo di un essere umano, entra
in scena in diverse situazioni, da quelle appartenenti alla sfera privata:
relazioni sentimentali di coppia, rapporti tra genitori e figli - a quelle
professionali: lavoro dipendente o libero professionista.
Secondo Daniel Goleman le nostre emozioni
raramente usano le parole per rendere visibili le loro presenze, spessissimo
sono invece altri segni comunicativi che le rappresentano. La soluzione possibile, quindi, per cogliere e rendere intellegibili i
sentimenti degli altri consiste nell’abilità di leggere i messaggi ,vocali o
semantici, che percorrono sentieri
comunicativi non verbali: gli sguardi, il tono della voce, la testa, la
postura e così di seguito.
L’empatia, presente sin dai primi giorni della
nostra vita, immergendosi nel mondo soggettivo altrui, legge e comprende le
emozioni dell’altro (paura, amore, rabbia, ecc.) espresse con il tono di voci,
gesti, espressioni del volto e altre simili in canali non verbali. Insomma,
guardare con attenzione e partecipazione ciò che è all’esterno per poter
percepire e leggere il contenuto interno dell’altro, un labirinto profondo che
è altrimenti inaccessibile con i nostri mezzi. Ed è possibile questa evenienza
perché l’empatia ha una funzione di apertura totale verso l’interlocutore,
senza alcun pregiudizio, riserva mentale e allo scopo di ottenere un’evoluzione
autentica nella relazione tra due persone.
L’empatia è, quindi, importante nelle
relazioni affettive ( genitori-figli), nel lavoro (professionale, creativo): riuscendo ad
immedesimarsi nell’emozioni dell’altro e gestire le proprie in modo proficuo.
Sulla base di quanto appena detto, ora
qualche considerazione sulle emozioni che rileviamo a volte nelle letture, in
conseguenza della nostra interpretazione e comprensione. Vi sono diversi tipi
di emozioni, alcune inducono piacere, altre che nascono dalla partecipazione
attiva del lettore all’oggetto della lettura. Tipica risposta emozionale di
quest’ultima natura a testi narrativi e poetici, è l’empatia.
Una
poesia, un racconto, un romanzo fanno proprie le gioie e le ansie dell’umanità.
In quelle riconosciamo noi stessi, la nostra esistenza possibile. L’attenzione
intensa sulla paura, sulla pietà, o sui sentimenti intimi dei personaggi ai
quali ci rivolgiamo con la lettura dipende dal giudizio d’importanza che noi
diano circa ciò che riteniamo giusto e non da un impulso indiscriminato di
condivisione.
A questo punto inizio la visitazione di alcuni
testi di autori italiani contemporanei, usando l’espediente intrigante
dell’esterno-interno, che è specifico dell’atto di leggere empaticamente, ma di
cui non siamo consapevoli.
Tra
gli autori del primo Novecento, che secondo l’estetica motivazionale hanno dato
libero sfogo alla natura libera dell’uomo, a scoprire la relazione tra la vita
intima e la vita quotidiana del singolo individuo, tra la vita quotidiana del
singolo e quella della collettività in cui egli vive, sono i triestini Umberto
Saba e Italo Svevo (pseudonimo di
Aron Hector Schmitz), due involontari e solitari navigatori terrestri, che si
pongono sulla via dello scavo interiore, la quale permette loro di viaggiare
nel mondo dell’invisibile alla ricerca di ritrovare la coscienza di sé e la
sospirata liberazione dell’io dall’angosce e dalle ossessioni.
Sono del parere che questo tipo di scelta
psicologica non impedì a Saba di sentirsi vicino a tutti gli aspetti della vita
quotidiana, agli uomini e ai sensi concreti delle cose, che rappresentano solo
una parte delle ispirazioni della sue poesie perché egli non sarebbe stato
riconosciuto come un uomo del nostro tempo se non avesse sentito questa
ispirazione resa opaca anche da una tristezza profonda, da una disperazione
insuperabile, dalla sua scissione in due personalità: con un occhio vede le
cose migliori e l’altro non sa rinunciare alla propria tristezza, a svincolarsi
dalla solitudine che esclude dal ritmo della vita.
Tante sono le poesie amorose che posso citare e visitare per cogliere
empaticamente il linguaggio delle emozioni rappresentate dai vari segni
semantici; preferisco leggere La foglia,
da “Il canzoniere”(1900-1954), la
cui voce, simile a quella delle Sirene, cattura e mi conduce tra i versi, a
rivivere gli stessi stati d’animo del poeta.
LA
FOGLIA
Io sono come quella foglia – guarda –
sul
nudo ramo, che un prodigio ancora
tiene
attaccata.
Negami dunque. Non ne sia rattristata
la bella età che a un’ansia ti colora,
e
per me a slanci infantili s’attarda.
Dammi
tu addio, se a me dirlo non riesce.
Morire
è nulla, perderti è difficile.
È autunno. Il paragone con la foglia che sta
per cadere è, dal punto di vista stilistico efficace come anche da quello
emotivo, perché comunica la tristezza di un’ anima ferita sul punto di
abbandonare un sentimento non corrisposto. Nella seconda terzina la
supplica,<<Negami>>, mette a nudo il dolore patito dalla defezione
dell’essere amato. Da qui le parole spandono molecole di malinconia. Sono le
emozioni che comunicano l’incapacità dell’uomo di staccarsi naturalmente,
perché <<a slanci infantili s’attarda>> cioè è trattenuto da una forte carica di
intimi sentimenti stipati gelosamente nello scrigno della mente.
Allora
<<Dammi tu addio>> implora l’anima disperata, distrutta da un
dolore profondo alla persona amata, per porre fine ai tormenti dell’abbandono.
Certamente
nelle
ultime parole l’amore raggiunge il suo massimo valore emotivo: è il momento in
cui la pena della perdita dell’amata è di gran lunga minore della stessa morte.
Italo Svevo è uno dei più importanti autori
del Novecento italiano. Oltre ai racconti e a qualche piéce in prosa , ha
scritto tre romanzi, Una vita, Senilità
e La coscienza di Zeno. In questa trilogia
Svevo ha espresso il fallimento dei grandi ideali dell’Ottocento
italiano, con un linguaggio ironico e amaro, scavando nella coscienza e
rivelando miseria e debolezza della vita umana, osservata però con amorevole e
rassegnata tristezza. Qui prenderò in considerazione alcuni frammenti utili al
mio discorso dalle pagine l’ultimo libro, “La coscienza di Zeno”, un romanzo
vastissimo la cui narrazione non offre
la cronologia, lineare successione degli eventi, ma segue il filo della
memoria; i fatti della vita dei protagonisti sono giudicati dallo stesso autore
secondo prospettive, modificazioni e ripensamenti che variano nel tempo.
Dalle varie storie, scelgo non in maniera
capillare alcuni frammenti di confessioni del protagonista/autore, senza però
dare visibilità ulteriore alla scrittura, ma
per cogliere il linguaggio di alcune emozioni ben inserite
nell’introspezione psicologica del nevrotico Zeno. Leggiamo:
<<Una
confessione in iscritto è sempre menzognera! Se egli sapesse come raccontiamo
con predilezione tutte le cose per le quali abbiamo pronto la frase e come
evitiamo quelle che ci obbligherebbero da ricorre al vocabolario…si capisce
come la nostra vita avrebbe tutt’altro aspetto se fosse detto nel nostro
dialetto>>.
In questo frammento emerge non una
edificazione della menzogna, ma una emozione piacevole, che comunica
empaticamente al lettore l’idea del protagonista di vedere la vita come una commedia.
<<Tutto ciò giaceva nella mia coscienza
a portata di mano. Risorge ora perché non sapevo prima che potesse avere
importanza. Ecco che ho registrato l’origine della sozza abitudine e (chissà?)
forse ne sono già guarito. Perciò. Per provare, accendo un’ultima sigaretta e
forse la getterò via, disgustato>>.
È il grande sollievo dell’animo che comunica
la sospirata guarigione, dopo numerosi tentativi falliti messi in atto per
smettere di fumare.
<<Con
uno sforzo supremo arrivò a mettersi in piedi, alzò la mano alto alto, come se
avesse saputo ch’egli non poteva comunicarle altra forza che quella del suo
peso e la lasciò cadere sulla mia guancia. Poi scivolò sul letto e di là sul
pavimento. Morto>>. Più che
imbarazzo per lo schiaffo (Volontario?)
lo stato d’animo di Zeno sente un
fortissimo affetto per il padre, una
devozione che custodirà nella sua memoria per tutta la vita .
<<
Non v’è niente di più difficile a questo mondo che di fare un matrimonio
proprio come si vuole. Lo si vede dal caso mio ove la decisione di sposarmi
avevo preceduto di tanto la scelta della fidanzata. Perché non andai a vedere
tante e tante ragazze prima di sceglierne una ?>>.
In questa confessione non c’è esitazione. La
motivazione a decidere per non decidere è una geniale trovata per non assumersi
responsabilità. In fondo, Zeno apprezza le donne, almeno dal punto di vista
estetico (la dichiarazione ad Ada e l’amante Carla), tuttavia si affida
casualmente nel corso della vita. E le sue scelte accidentali si dimostrano
alla fine più convincenti e vantaggiose, a cominciare dalla moglie Augusta
Malfenti.
<<
Io sono guarito! […] Io sono sano. Da lungo tempo io sapevo che la mia salute
non poteva essere altro che la mia convinzione e ch’era una sciocchezza degna
di un sognatore ipnagogico di volerla
curare anziché persuaderla>>.
È una
emozione liberatoria. Si è vero, Zeno ha
raccontato un sacco di storie, ha finto d’essere un malato mentale, ma in
fondo, per essere sani non c’è che un mezzo,
persuadersi
di esserlo
lunedì 2 ottobre 2017
LA MALINCONIA EMOZIONE CHE GENERA CREATIVITÀ'
Nel
linguaggio quotidiano contemporaneo il termine malinconia è un particolare
vissuto psicologico, o meglio, uno stato d’animo che tutti sperimentiamo nei
momenti di sosta nella nostra vita,
fatto di tristezza non così dolorosa, d’incapacità di avere un rapporto
costruttivo con gli elementi del mondo, di angoscia esistenziale. È associato a
una emozione positiva, perché conosce i limiti degli avvenimenti e delle cose
e, soprattutto, non blocca le iniziative giornaliere in quanto è antitetica
alla depressione. In breve, la malinconia positiva è un momento di tristezza
indispensabile per l’equilibrio delle emozioni, da assecondare e ascoltare.
Nella cultura medica, invece, il vocabolo
malinconia, in particolare sotto l’egida del padre della psicanalisi, Freud,
indica un disturbo psicologico grave, caratterizzato da mancanza di
fiducia, incapacità di provare emozioni,
di produrre iniziative e di idee suicide, la depressione appunto.
A differenza della nostalgia, della tristezza
o della depressione, la malinconia può non essere diretta verso alcun oggetto
esterno e può costituire per alcune persone un tratto preponderante della
personalità, mentre per altre solo alcune fasi della vita. Le persone
malinconiche, infatti, si distinguono dalla altre perché chiuse in sé e timide,
ma nel profondo sognatrici e romantiche.
Come stato dell’essere il malinconico ha una
capacità immaginativa più degli altri, e quindi è un creativo, basta pensare ai
numerosi scrittori, poeti, pittori e musicisti, è sufficiente citarne qualcuno come Leopardi, Van
Gogh, Saba, Proust, Baudelaire, Schopenhauer, che nei secoli hanno fatto della
loro malinconia un febbrile ambiente di produzione artistica, che ha permesso
di lasciare opere indelebili nella storia della cultura occidentale.
Scorrendo
rapidamente le pagine della letteratura italiana dalle origini ai nostri giorni
rilevo che, col trascorrere del tempo storico, il termine letterario di
malinconia si diversifica e si specifica in significati distinti e meno
sfumati, ricchi di esempi noti e meno conosciuti. Così partendo dall’età di
Dante trovo predominante la malinconia amorosa e passando per il periodo di
Leopardi caratterizzato dalla caducità , approdo al Novecento dove la malinconia
viene analizzata e incanalata dal mondo scientifico in un discorso fatto di
paura, di disillusione, di disperazione, al crollo del sogno e delle ideologie.
Questa contemporanea forma di malinconia
dolorosa divora la sensibilità mentale di scrittori, poeti e in generale di
artisti, e, per quanto mi riguarda, trova adeguato posto in diverse pagine di
Cesare Pavese e di Pier Paolo Pasolini, due intelligenti e coraggiosi
intellettuali della seconda metà del
Novecento in Italia, che di seguito analizzeremo.
Cesare Pavese è certamente uno scrittore
poliedrico capace di dare patine sentimentali e tinte melodiose ai suoi
personaggi e nel contempo covare segretamente desideri e oscuri pensieri, che
appena velati appaiono nelle pagine de Il
mestiere di vivere:
<<Non ci si uccide
per amore di una donna, ci si uccide perché un amore qualunque, ci rivela nella
nostra nudità, miseria, infermità, nulla>>; in quelle del romanzo La luna e i falò:
<<Quello
che restava era come una piazza l’indomani della fiera, una vigna dopo la
vendemmia, il tornar solo in trattoria quando qualcuno ti ha piantato>> e
ancora nel racconto La spiaggia:
<<Niente
è più inabitabile di un posto dove siamo
stati felici>>.
In questa brevissima panoramica Pavese ci
appare un uomo malinconico e pensieroso: si affacciano le certezze dolorose,
crollano i sogni, non trova la possibilità di amare un’altra persona. La
malinconia perdurante nella sua attività si sta mutando in depressione: si è
insinuata oramai la pulsione all’autodistruzione.
La personalità di Pier Paolo Pasolini è senza
alcun dubbio una delle più produttive e originali della letteratura italiana.
Egli è stato, infatti, poeta in lingua e in dialetto, narratore, regista, giornalista
e critico militante secondo certi parametri valutativi scomodo,
anticonformista, ma atto a suscitare dissenso e scandalo e nel contempo a
raccogliere diversi consensi tali che ha lasciato un’orma incancellabile nella
cultura italiana del secondo Novecento.
Dai suoi numerosi scritti, ho tratto i
seguenti esempi nei quali Pasolini usa la malinconia come un grimaldello
emozionale per evadere da uno stato precario generato da un doloroso pessimismo
nei confronti della realtà violentemente degradata.
Iniziamo la lettura dalla raccolta Il meglio della gioventù, che racchiude
alcuni pensieri più significativi della produzione in versi di Pasolini, l’autore rivive con malinconia
sulla sua coscienza di adulto le prime esperienze di vita, ormai trasformate in
nostalgico rimpianto:
<<Venite,
treni, portate lontano la gioventù
a cercare per il mondo ciò che qui è
perduto.
Portate,treni, per il mondo, a non ridere
mai più,
questi allegri ragazzi scacciati dal
paese>>.
Segue
la poesia Le ceneri di Gramsci, in
cui l’amore per il mondo proletario destinato a scomparire, è evidente nella
malinconica descrizione finale:
<<
È un brusio di vita, e questi persi/ in essa, la perdono serenamente,/ se il
cuore ne hanno pieno: a godersi// eccoli, miseri, la sera: e potente/ in essi,
inermi, per essi, il mito/ rinasce…Ma io, con il cuore cosciente// di chi
soltanto nella storia ha vita,/ potrò mai più con pura passione operare,/ se so
che la nostra storia è finita?>>.
Le tematiche della raccolta di articoli per
il Corriere della Sera, pubblicate col
titolo Scritti corsari sono la
società italiana contemporanea, i suoi endemici mali e le sue angosce:
<<
L’uomo medio dei tempi del Leopardi poteva interiorizzare ancora la natura e
l’umanità nella loro purezza ideale oggettivamente contenuta in esse; l’uomo
medio di oggi può interiorizzare una Seicento o un frigorifero, oppure un weekend
a Ostia>>, in cui è evidente la nostalgia del sottoproletariato di una
volta , che era adorabile, mentre quello presente fa schifo.
Concludo la rassegna con la lettura di alcuni
versi di Transumanar e organizzar,
una raccolta in cui rilevo la frattura psicologica tra il poeta e il suo tempo
storico, che viene da lui avvertita e tradotta in un verso adatto ad
esprimerla:
<<
Non c’è cena o pranzo o soddisfazione del mondo,
che valga
una camminata senza fine per le strade povere,
dove bisogna essere disgraziati e forti,
fratelli dei cani.>>.
A questo punto posso concludere dicendo che la
malinconia è una emozione positiva che fa parte della nostra quotidianità,
vivendola fino in fondo, può favorire
un’attenta introspezione, una nuova ricerca più riservata o nascosta nella
nostra interiorità.
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