venerdì 16 settembre 2016

LA MALATTIA RENDE VULNERABILI

La malattia intesa come uno stato patologico per alterazione della funzione di un organo o più organi (Il Nuovo Zingarelli)  ci fa diventare vulnerabili, fragili nel corpo e nella mente, per questo ci sentiamo spaventati e, soprattutto, disorientati. Con altre parole, la malattia porta con sé un profondo malessere psicologico che, in alcuni casi, può arrivare a cambiare anche in negativo il sistema di vita di ciascuno di noi. Inoltre, con diversi valori prognostici la patologia porta con sé dolore, solitudine, limitazioni alle normali attività quotidiane e a volte, nei momenti di maggiore sofferenza, di fragilità ci pone di fronte alla morte con tutte le domande per il credente e non, le paure, le angosce che generano in noi il pensiero finale della vita.
  Dal punto di vista psicologico, ciascuno di noi si comporta in modo diverso nell’accettare e vivere la malattia. Essere malati d’influenza, per esempio, è una situazione del tutto diversa che essere affetti di una grave  patologia neurologica o tumorale. D’altronde nessuno è contento di essere ammalato. Per cui, quando si è colpiti da una patologia, si è pervasi da un senso d’angoscia e di disperazione, da questi momenti di umana esperienza di fragilità, originano le reazioni psicologiche più diverse perché varie sono le modalità di affrontare la singola malattia.
  Di sopra, abbiamo illustrato come ogni paziente si costruisce una propria modalità per vivere le debolezze e le fragilità generate dalle malattie. Ora passiamo ad analizzare i cambiamenti psicologici dei malati rispetto al concetto evolutivo della malattia e, nello specifico, delle categorie acute e croniche.
  Si parla di malattia acuta quando un morbo si manifesta improvvisamente e virulentemente e il suo effetto non comporta alla base nessun rischio per l’individuo, inoltre il suo perdurare è ritenuto in media breve, e ciò non lascia spazio a una riflessione  e comprensione profonda  della gravità. Ma pur vivendo in un contesto di temporanee  limitatezze e di emozioni ferite, il paziente non perde mai la speranza per il futuro.  
  Quando la malattia da acuta perdura nell’individuo per un periodo indeterminato, spesso per l’intero corso della vita, si trasforma in cronica: l’esperienza del tempo cambia profondamente, i giorni sono sempre uguali, viene meno la speranza verso il futuro. Per cui, come afferma Eugenio Borgna, in ogni paziente non può non chiedersi con animo doloroso e angosciato cosa sarà  ancora la mia vita, quali rapporti interpersonali saranno possibili, quali problemi quotidiani  e quale impegno di lavoro mi saranno possibili, come accoglieranno gli altri, soprattutto la mia famiglia la mia debolezza e la mia fragilità, e quale aiuto sarà loro possibile darmi.
  Il primo punto di riferimento del malato cronico è l’ospedale. In queste strutture sanitarie, l’ammalato può trovare trattamenti adeguati al suo caso specifico, al di fuori della così detta “alleanza terapeutica” tra medico e paziente. Il medico ha il compito di prospettare al paziente e ai familiari, i vantaggi delle nuove terapie mediche e chirurgiche che riguardano il suo caso. Spesso, però, i sanitari si  dimenticano – per mancanza di disponibilità - che dietro quel “caso” c’è una persona fragile, vulnerabile ferita dal dolore e dall’angoscia; e sarebbe invece sufficiente uno sguardo dolce o un sorriso ad alleviare il dolore psichico.
  Raramente, per osservazione personale, gli effetti di una malattia cronica si limitano al solo individuo malato, perché l’ansia, l’angoscia che prova l’ammalato la prova anche  la persona che gli è vicina.
  La presenza in casa di un paziente con patologia cronica incide, più o meno profondo, su tutti i componenti del nucleo familiare, che diventano più vulnerabili, sostengono impegni quotidiani spesso molto gravi, derivanti dal lavoro di cura, dalla continuità dell’impegno, dell’intensità emotiva generata dal costante confronto con la sofferenza psicofisica e la morte.
 In conclusione, scoprirsi ammalato, soprattutto cronico, l’esaurimento delle forze fisiche ed emozionali causato dal morbo, diventa fonte di fragilità, di vulnerabilità per l’ammalato e anche per il familiare, che giornalmente lo assiste.




















venerdì 2 settembre 2016

LE EMOZIONI NELL'EDUCAZIONE

Nel corso di questi ultimi anni, abbiamo avuto modo di cogliere e di apprezzare l’importanza che i vari studiosi, dalle neuroscienze alla pedagogia e psicologia,  danno all’emergere dei sentimenti e delle emozioni dei discenti – bambini ed adolescenti -, legati al mondo della scuola, siano essi in riferimento ai rapporti sociali – con i compagni – o vincolati al loro percorso di apprendimento.
 Attualmente, oltre agli interventi dei vari ricercatori e ai suggerimenti della Riforma “Educazione alla salute” che indicano:<<Comprendere che l’uomo si deve confrontare con i limiti della propria salute ed elaborarli, integrandoli nella propria personalità>>, (www.istituzione.it) la scuola è diventata un luogo privilegiato per  lo sviluppo di corsi di alfabetizzazione emozionale e sia per l’apprendimento in senso specifico.
 Per moltissimo tempo il predominio della tradizione cartesiana, che ha considerato la chiarezza e la lucidità come criteri indiscussi di verità, ha caratterizzato non solo l’ambito filosofico e psicologico, ma anche quello pedagogico, dove a lungo il mondo dei sentimento e stato ignorato, parte importante della formazione, privilegiando lo sviluppo delle attività mentali piuttosto di quelle del cuore.
 La svolta in direzione di una rivisitazione di questo collaudato e rigido modello è giunta grazie al contributo sia dalle neuroscienze, che hanno consentito di realizzare una nuova mappatura neuronale delle relazioni tra cervello e cuore, sia dalla psicologia e dalla pedagogia, che hanno realizzato e proposto un nuovo metodo di tipo umanistico alla conoscenza dell’essere umano.
 Una scuola, quindi, - come anche la famiglia - più attenta all’educazione del cuore può trarre alimento e nutrimento dalle emozioni e dai sentimenti, per orientare le ricerche, gli scopi, le direzioni di senso dell’esistenza umana.
 Educare bambini e adolescenti alle emozioni e ai sentimenti non significa insegnare a ignorare o a negare le tendenze istintive, a tacere le varie emozioni, a inibire quei particolari stati d’animo che possono impedire il corretto svolgimento delle attività intellettive. Secondo i nuovi orientamenti pedagogici, il compito educativo principale si realizza nell’accompagnare il discente ad assegnare un ruolo significativo alla vita emotiva nella sua esistenza, assumendosene la totale responsabilità.
   Va da sé che la scuola non si deve impegnare di trovare nella sua azione didattica soltanto strumenti idonei che facciano di sostegno allo sviluppo cognitivo, ma anche di reperire le abilità che favoriscano le competenze emotive, quali l’espressività, la comprensione e la regolazione delle emozioni (capacità, queste, che analizzeremo in un prossimo intervento).
 Gli insegnamenti emozionali appresi durate il periodo dell’infanzia e dell’adolescenza possono dare tonalità adeguate alle nostre risposte emozionali. Convogliare le emozioni con lo scopo di conseguire un fine produttivo raffigura la via maestra che guiderà l’essere umano a esprimere le proprie emozioni con intelligenza. È necessario intervenire nel modo in cui, gli educatori tutti, preparano i discenti alla vita: ma devono iniziare dai banchi della scuola a insegnare l’autocontrollo, l’autoconsapevolezza e l’ascolto dei bisogni altrui (Goleman 1996).
   Allora bisogna progettare interventi didattici che tengano in considerazione il ruolo che l’emozione (positiva o negativa) ha nell’attività educativa come la memoria, l’attenzione, il pensiero, e  quindi anche essa influenza l’apprendimento.
 Questo evento, secondo i ricercatori, dipende dall’attivazione di diversi fattori, tra cui citiamo: a) al momento di richiamare un apprendimento la sintonia emotiva nella quale siamo in quel momento consente l’attivazione della stessa rete neurale che ha memorizzato l’apprendimento; b) nuove emozioni consentono di creare altrettanti modelli comportamentali per le  persone.
 D’altronde, un apprendimento realizzato solo sul piano cognitivo astratto rimane distante dal contatto con la realtà e con l’esperienza diretta. Esso non raggiunge un sufficiente apporto neuronale di memorizzazione sufficiente per essere ricordato nel tempo. O meglio, la memorizzazione avviene, ma ha scarse probabilità di stabilire collegamenti con altre reti neuronali e, quindi, non avrà energia per essere ritrovata in un momento successivo.
 A questo punto possiamo concludere dicendo che se le emozioni sono in stretta dipendenza con la conoscenza, allora è fondamentale trattarle all’interno delle aule scolastiche, che sono sicuramente un ambito idoneo in cui bambini e adolescenti hanno l’opportunità di sentire e di vivere le varie emozioni.