sabato 16 settembre 2017

L'INVIDIA UN'EMOZIONE SGRADEVOLE

L’invidia è un’emozione che nasce nell’individuo nel constatare che un suo simile è felice, sta ottimamente con se stesso, è soddisfatto, è riuscito in un suo progetto, un intimo sentimento che a volte assume una intensità tale da far desiderare che il benessere altrui si trasformi in malessere: nell’osservare l’altra persona stabiliamo, senza neanche desideralo, un confronto e questo confronto ci rimprovera  per ciò che non abbiamo e ciò che noi siamo.
 L’invidia è un’emozione sgradevole che difficilmente noi ammettiamo. Nello stato emozionale dell’invidia, l’altra persona con la quale stabiliamo un paragone è il migliore e non importa se quanto gli invidiamo e vorremmo ardentemente per noi gli è costato enormi sacrifici. In alcuni casi, nell’invidioso esiste il desiderio che la persona invidiata perda l’oggetto (bene materiale o affetto) senza che l’invidioso ne tragga poi effettivamente vantaggio. Quando siamo preda dell’invidia, diventiamo ciechi e vediamo solo noi stessi. L’altro funziona come uno specchio e ci mostra, non necessariamente in modo intenzionale, la nostra inferiorità.
 Come abbiamo già detto, nessuno è immune dall’invidia, anche se poi tutti non hanno il coraggio di confessarla. Al limite si può ammette di farsi prendere a volte da scatti d’ira,  di  compiacersi nella  inoperosità o di soffrire per gelosia, ma di essere  logorato dall’invidia proprio no. Secondo gli psicologi l’invidia è l’emozione negativa più rifiutata. Questo perché ha nel suo intimo due elementi infamanti: il primo ammettere di essere inadeguato, il secondo prova di procurare danni all’altro senza confrontarsi a viso aperto ma in modo ambiguo, considerato infelice.
 L’invidia, infatti,  di frequente è distinta dall’antipatia malcelata verso l’altra persona, dal desiderio di danneggiarla, persino dietro la spalle con apprezzamenti maledicenti, e nel contempo di privarla di tutto quello che la rende piacevole, invidiabile.
 Anche un altro elemento distintivo dell’invidia la rende difficile da ammettere, persino a se stessi. Si prova soprattutto per la persona che è simile, per le persone che si considerano paragonabili come condizioni di partenza. Per una donna, ad esempio, è scottante il confronto con un’amica esteticamente più bella e corteggiata, più che quello indefinito e sproporzionato con una top model; per un uomo si invidia il collega d’ufficio che è stato promosso, non il direttore generale.
 Inoltre l’invidia colpisce spesso anche le persone che ci circondano e a cui siamo affezionati, come colleghi, compagni di classe, ma anche amici e parenti: la pari convenienza rende infelice l’essere  al di sotto rispetto ai successi di un fratello o di una sorella,  in un raggio d’azione importante per sé.
 A questo punto diciamo che in fondo l’invidioso non ha lo scopo di danneggiare l’altro direttamente, ma auspica il male dell’altro. Questo perché  non è stato danneggiato realmente e quindi non può agire in modo attivo e apertamente, soprattutto perché la società condanna l’invidia. La società civile, infatti generalmente tendono a scoraggiare gli atti ostili per custodire  i valori sociali.
 Tuttavia dal suo punto di vista l’invidioso non ha tutti i torti. A questo riguardo,  infatti, neanche l’esibizione della superiorità è tollerata dalla società, perché mette in evidenza l’inferiorità dell’altro. 

In conclusione, l’invidia se è ritenuta pericolosa per le altre persone, perché allora proviamo questa emozione? Perché l’invidia è simile alla paura, dicono gli psicologi, la quale è sgradevole ma ci prepara a reagire a un pericolo. È un vero campanello d’allarme: ci avverte velocemente che siamo perdenti nel confronto sociale con l’altro. Ed essere in una posizione inferiore e sicuramente svantaggioso, quindi l’invidia è un’emozione che segnale questo tipo di disagio sociale e ci dovrebbe incitare a uscirne per cui necessariamente deve essere un’emozione spiacevole. 

martedì 5 settembre 2017

LE FERITE DELL'ANIMA

Prima d’iniziare a parlare delle ferite, passiamo, brevemente, in rassegna il contenuto del termine <<anima>> nelle sue differenti forme ed espressioni, rintracciabili nelle varie tipologie antropologiche, culturali e scientifiche di ogni periodo storico.
 Secondo la Bibbia l’anima umana è l’intera persona che può lavorare, desiderare il cibo, mangiare e ubbidire alle leggi.
Per  la concezione cristiana, l’anima è l’elemento spirituale dell’uomo, che con il corpo producono, - nella sua unità, un unicum - , la persona umana vitale.
  Dal punto di vista della filosofia moderna, Hume critica il dualismo di Cartesio, - il corpo e l’anima, percepiti separati che agivano separatamente – parlando dell’anima come un fascio di fatti o eventi psichici in perpetuo movimento. Nel Novecento si è spesso parlato  dell’anima come un principio vitale, non puramente spirituale--razionale, ma inconsapevole.
 In ambito psicologico contemporaneo la psiche, che per gli antichi greci era l’anima, è un complesso di funzioni cerebrali, emotive, affettive, relazionali, pur avendo un aspetto più astratto legato all’inconscio e alla coscienza.
  Va da sé che, da ora in poi parlando di anima, noi intendiamo psiche,  poiché in  psicologia l’uomo è anzitutto psiche, e la psiche è l’essenza dell’uomo stesso.
Passando al tema, diciamo che ogni trauma psicologico, visibile o invisibile, ha effetto profondo sulla psiche e sulle relazioni interpersonali della persona. Esso genera un nuovo e strano mondo fatto di vari strati di dolore. Tuttavia, esiste una varietà soggettiva che riguarda le ferite dell’anima. Queste, infatti, non sono percepite allo stesso modo da tutti. Un evento può accadere di non essere accettato dal punto di vista emotivo – per esempio il senso di vuoto – fino ad avere tragiche conseguenze nell’ambito delle relazioni interpersonali, continuando a mantenere vivo e attivo il suo effetto traumatizzante, attraverso i ricordi. Questo risultato può diventare motivo di disturbo nel vissuto di una persona, mentre potrebbe essere  meno deleterio o vissuto con meno dolore da altre persone.
 Per essere, quindi, considerata una vera ferita psicologica, di fronte a un trauma, la risposta della persona deve comprendere un serie di emozioni tra le quali paura intensa, il sentirsi incapace di agire o addirittura di  avere orrore.
 Quali traumi possono ferire la nostra anima? Intanto bisogna dire che non tutti i traumi sono uguali. Per cui alcuni studiosi addetti alla materia distinguono i traumi in categorie, altri sui principali eventi emozionali.
  In breve per i primi vi sono due categorie di traumi:1)  legati a rapporti interpersonali, cioè eventi della vita quotidiana che, pur apparentemente innocui, se si ripetono, procurano danno psichico alla persona; 2) legati ad eventi profondi che compromettono la stessa esistenza o l’integrità fisica della persona.
 Per gli altri, le più importanti ferite dell’anima sono quelle emozionali: l’abbandono, il rifiuto, l’umiliazione, il tradimento, l’indifferenza e la derisione. Queste ferite profonde bloccano la capacità di essere se stessi e condizionano la stessa vita.
 Dal nostro punto di vista queste ferite emozionali dell’anima, sono esperienze il cui impatto emotivo è così intenso e negativo da produrre nel nostro cervello delle vere cicatrici biologiche che condizionano i nostri comportamenti, le nostre emozioni, la nostra personalità, le nostre capacità relazionali.
 Le cicatrici degli avvenimenti più dolorosi non scompaiono facilmente dal cervello, mostrandone le conseguenze sintomatologiche anche a distanza di decenni.
 Alcuni di questi traumi emozionali sono generati da profondi dolori personali, intimi che la persona colpita non sa come gestire. Altri traumi vengono attivati dalla cosiddetta “memoria traumatica” : la persona risponde con paura, vulnerabilità, orrore, dopo avere assistito ad eventi potenzialmente mortali, con pericolo di morte o di feriti gravi, o una minaccia alla propria integrità psicofisica. Facciamo qualche esempio letterario.
 Dai traumi interni origina la poesia di Amelia Rosselli, i cui versi sono caratterizzati da impulsi emotivi instabili, da gridi afoni di un io poetico che tollera con grande sofferenza psichica gli eventi della vita interiore ed esteriore. Di tale fragilità emotiva sono i segni di molti versi sparsi nelle raccolte che colpiscono il lettore. Alcuni di questi particolari versi sono i seguenti:
<<E il delirio mi prese di nuovo, mi trasformò
      stanca ed ebete in un largo pozzo di paura,
      mi chiamò coi sui stendardi bianchi e violenti
      mi spinse alle porte della follia>> (La libellula).
 Proseguendo l’analisi di questo conturbante discorso poetico, abbiamo rivelato che le parole, senza alcun artificio letterario, portano alla luce gli angoli più bui, più profondi del suo, del nostro essere, che sfuggono al controllo della ragione. Leggiamo alcuni versi:
<<Dissipa tu se tu vuoi questa debole
     vita  che non si lagna. Che ci resta. Dissipa
     tu il pudore della mia verginità; dissipa tu
     la resa del corpo nemico. Dissipa la mia effige.
     Dissipa…dissipa>> (La libellula).
 Si tratta  di un parlare affannoso, debordante di tensione interna da cui nasce una poesia che analizza, cerca di portare alla luce, per quanto possibile, le contraddizioni insite nella sua coscienza.
 E concludiamo questa breve disamina delle ferite dell’anima di Amelia Rosselli con i versi che seguono:
 <<Oh mio fiato che corri lungo le sponde
      dove l’infinito mare congiunge braccio di terra
      a concava marina, guarda la triste penisola
      anelare: guarda il moto del cuore
      farsi tufo, e le pietre spuntate
      sfinirsi
      al flutto>>, e ancora:
<<L’alba ai rintocchi  cade
     sulla mi testa malata
     il difficile umore m’assale

    verde come la paura>>  ( Variazioni belliche).
 Passando alle memorie traumatiche, prendiamo in considerazione alcune composizioni in versi de le POESIE SPARSE E PROSE LIRICHE, che rivelano il travagliato stato d’animo di  Clemente Rebora durante i mesi trascorsi in prima linea, come sottotenente di fanteria nella prima guerra mondiale; un periodo drammatico, di avvenimenti dolorosi, che mostrano chiaramente le conseguenze sintomatologiche anche a distanza di decenni.
  Queste composizioni poetiche vivono un profondo malessere esistenziale, o meglio una tensione interna che esprime senza formalismi retorici un insieme di amarezze,  delusione, stordimento e smarrimento:   
 <<[…] Tra melma e fango
       tronco senza gambe
       e il tuo lamento ancora,
       pietà di noi rimasti
       a rantolarci e non ha fine l’ora,
       affretta l’agonia,
       tu puoi finire  […]  (VIATICO),
 e quando il disagio psichico aumenta sfociando in un dolore e in un’angoscia insopportabile, il poeta avverte un senso di vuoto come un’anima persa, intimidita, spaurita:
<< […] Fungaia
      d’un morto saponava la terra; a divano. Forse
      […] Feci come per tergerlo al cuore – ma
              Viscido anche il mio cuore. Perdono? […] (Perdono?),
e continuando la nostra lettura incontriamo nuovi squarci di umana sofferenza:
<<C’è un corpo in poltiglia
     Con crepe di faccia, affiorante
     Sul lezzo dell’aria sbranata.
     Frode la terra.
     Forsennato non piango:
     Affar di chi può, e del fango […] (Voce di vedetta morta).
Da questa breve sintesi di versi la figura umana e psicologica di Rebora emerge nella sua fragilità, nella sua vulnerabilità emotiva e nella sua incapacità di superare vicende drammatiche. Nelle sue parole si può cogliere un insieme di dolore, di paura e di angoscia, cicatrici indelebili dell’esperienze di una guerra che destabilizzò psicologicamente il poeta.

  Ogni tipo di trauma, dunque, lascia evidenti tracce negative e invisibili nella nostra mente, che, nel breve o lungo periodo della propria esistenza, condiziona i nostri normali modelli comportamentali, le emozioni e le relazioni sociali.