giovedì 1 ottobre 2020

LA FELICITA’, UNA EMOZIONE PRIMARIA

 

LA FELICITA’, UNA EMOZIONE PRIMARIA

Nell'attuale società, la ricerca della felicità è avvertita come un bisogno totale e personale, oppressi come siamo dalla nostra impotenza dinanzi alle imprevedibili catastrofi naturali, dall'angoscia di uno sterminio atomico, o dal timore di una totale distruzione del mondo culturale e civile che con sacrifici abbiamo edificato e dal ritorno alla barbarie attraverso uno dei tanti ricorsi storici.

 Per questo motivo, la domanda comune è se l’umano possa conseguire la felicità e soprattutto come questa condizione psichica sia stato concepita dai vari studiosi: alcuni hanno evidenziato la componente emozionale, come il provare buon umore, altri sottolineano l’aspetto cognitivo, come ritenersi soddisfatti della propria vita. Certe volte la felicità è rappresentata come soddisfazione, contentezza, appagamento, certe volte come gioia, piacere, divertimento, e altre  ancora  come uno stato  naturale del cervello che si genera in modo spontaneo se si agisce nel modo giusto.

 Oggi, però, la felicità per molte persone è associata al concetto di benessere e a volte, a uno stato di benessere materiale. I ricercatori invece non accettano questa valutazione che non è quella di riconoscere l’aspetto educante come un cammino verso una sorte favorevole con l’obiettivo di ricchezza, ma un cammino della crescita evolutiva dell’umano verso uno stato di totalità, dove la felicità riconquista la sua dimensione di umano come tale.

 Come abbiamo appena detto, la felicità percepita come benessere è un modello molto seguito attualmente. In questi ultimi decenni, gli studiosi hanno favorito teorie e dibattiti in vari settori, dalla sanità all'economia alle scienze sociali, di cui le scienze dell’educazioni fanno parte.

 Nel contempo alcuni studi di psicologi definiscono la felicità come uno stato autonomo dagli eventi esterni, ma dipendente invece da come esse vengono interpretati, in quanto originano dall'attitudine delle persone  verso gli interessi materiali e/o immateriali.

  Secondo le ricerche di altri psicologi, esistono diversi aspetti che contraddistinguono le persone felici da quelle che non lo sono. Questi aspetti sono le basi, atteggiamenti e pensieri, che una persona può apprendere per essere favorevole alla felicità.

 Si parla di una specie di addestramento fatto di conoscenze e comportamenti che se attuati possono portare alla ricercata felicità. Sono idee che possono produrre un sostanziale cambiamento nel comportamento, favorendo un mutamento nelle convinzioni di un soggetto.

 Prendiamo ora in visione alcuni punti per illustrare il metodo per diventare felici.

  Per prima cosa, dicono i ricercatori, la persona, che si conserva giornalmente più dinamica,  ha la possibilità di rendere migliore il livello di benessere psicofisico. Impegnare le energie in operosità coinvolgenti, accattivanti e piacevoli rende soddisfatti e di esito più felici.

 Va da sé che l’impegno speso, quando risulta produttivo, provoca soddisfazioni, ma perché abbia un concreto esito positivo su se stessi deve essere teso ad attività ritenute ricche di significato, come un tipo di lavoro appagante.

 Importante è di non dedicare tempo alle ansie quotidiane, rimugini, si ha meno tempo per essere felici. La felicità di una persona aumenta allorché si riducono i pensieri negativi, infatti le persone felici si preoccupano di meno della maggior parte della gente.  

 Per essere realmente felici è certamente utile impegnare le proprie energie sulle attività presenti, dando importanza ad ogni giorno e godendo delle opportunità quotidiane.

 Infine, eliminare i sentimenti e i problemi negativi e dare invece valore alla felicità.

 Insomma, se si rimane irretiti in pensieri negativi che si crede siano la possibile soluzione al problema, ma che al contrario portano ad allontanarsi dalla realtà, non ci si concede la possibilità di affrontare i fallimenti e viverli per quello che sono, senza generalizzare mai quello che accade ma legare gli eventi alla situazione. Solo in questo caso si possono valutare le proprie risorse, rimettersi in gioco puntare diritto all’obiettivo: essere felici.

                                                                                  

 

lunedì 1 giugno 2020

IL RANCORE È UN’EMOZIONE O SENTIMENTO


Quando subiamo un torto o un’offesa sperimentiamo una serie di vissuti negativi, prima di tutto il rancore verso chi ci ha fatto del male, il rancore però non è un’emozione istintiva, che scaturisce immediatamente in seguito all'insulto, ma è un vissuto emotivo che è sostenuto da una lunga meditazione solitaria e dal rimuginare
 su quanto accaduto.
 Per quanto riguarda l’argomento dei rancori dipende da alcuni fattori, quali per esempio l’età: gli adolescenti sono inclini a nutrire rancore spesso per episodi congiunti all'amicizia, all'amore, ai rapporti familiari e scolastici; le persone adulte, invece, al di là dell’amore e della famiglia, nutrono rancore e risentimento per eventi collegati al lavoro e spesso alla politica. 
Alcuni studi definiscono il rancore un’emozione (o un sentimento?) negativa che ci rende la vita difficile, in quanto ci alimenta di rabbia e di diffidenza, contaminando la nostra mente.
 È un’emozione (o un sentimento) alquanto ambigua, silente, usurante, continuamente in sviluppo: il rancore non lascia respirare chi ne è vittima, contaminando la qualità della vita e dei rapporti con gli altri. Un’emozione (o un sentimento) presente nell'essere umano sin dall'origine ma che nel contesto storico che viviamo, con l’articolata caratteristica ma alquanto transitoria del cervello contemporaneo, può far nascere serie difficoltà mentali e disturbi fisici di una certa entità, oltre a rappresentare un probabile pericolo per l’oggetto dei suoi attuali interessi. Senza alcun dubbio un fatto è sicuro: se non si prendono provvedimenti per renderlo innocuo o modificarlo, il rancore col tempo si sviluppa sino al punto in cui non è più possibile metterlo sotto controllo. Questo è un buon motivo per prendere subito provvedimenti integri e adeguati quando a volte siamo presi dal rancore.
 Ottime abilità per evitare che compaia il rancore sono: provare rabbia in modo giusto senza eccedere e, principalmente, identificare e manifestare il dolore che si avverte.
 Se valutiamo che la gran parte delle persone non conosce o non ha avuto l’occasione di apprendere a manifestare la propria rabbia nella maniera adatta e neanche verso dove indirizzare il vigore di questa emozione, ebbene è abbastanza comprensibile che si realizzino più difficoltà che possibili soluzioni.
 Nel momento in cui ci arrabbiamo, di norma è perché la nostra ansia ha oltrepassato ogni oggettività. Pertanto, bisogna ricordare che stiamo dando vita a una crescita di energia per avere più vigore e risolvere il problema che ci ha irritato. La questione è in che modo rendiamo esplicito questa irritazione.
 Questo, unitamente alla manifestazione di volontà di rendere manifesto il nostro dolore senza biasimarci, farà in modo che non si sviluppi maggiormente il rancore nel nostro interno.
 Comunque, se è impossibile eludere la presenza del rancore, dovremmo esaminare attentamente e modificare le nostre opinioni su ciò che ci ha ferito. Anziché svalutare la nostra persona, dobbiamo restituirci la facoltà di comunicare come ci sentiamo e di cosa abbiamo bisogno, in questo modo ci rendiamo coscienti di essere feriti e arrabbiati e avremo così la possibilità di comunicarlo alla persona interessata nel modo adatto. 
 Si parla, dunque, di essere coscienti di ciò che accade e d’ individuare come ci sentiamo, piuttosto che agire in modo istintivo, di là a capire che non tutte le persone possono elargirci tutto ciò che abbiamo desiderato avere o di cui abbiamo necessità, non soltanto per la condizione in cui ci troviamo nel momento, ma anche in quanto a volte non sappiamo comunicare correttamente le nostre urgenti e giuste richieste. 

venerdì 1 maggio 2020

L’ANSIA EMOZIONE NORMALE O PATOLOGICA


Parlando di ansia, la maggioranza delle persone conosce perfettamente a che cosa ci si riferisce: l’ansia è un’emozione primaria di per sé utile all'adattamento. Se pensiamo, infatti, che senza ansia e paura, l’essere umano non avrebbe avuto la possibilità di sopravvivere ai numerosi pericoli dell’ambiente. L’ansia ha dunque
funzione adattiva, che il nostro organismo adotta per avvisarci di un imminente pericolo.
 Escludendo questi casi limiti, pensiamo che se l’attacco d’ansia permane il tempo utile per far fronte adeguatamente un’attività quale, a esempio, un esame, un colloquio di lavoro, una particolare circostanza in cui è essenziale una rilevante quota di attenzione e impegno, dice che in uno stato emotivo adeguato all'acquisizione di un nostro obiettivo. Una certa quota di ansia è dunque utile nelle nostre attività quotidiane, quando, però, in alcune situazioni l’ansia supera una certa soglia allora diventa uno stato problematico, può immobilizzare l’individuo, trasformarsi in panico, in breve, può diventare patologica.
 L’ansia patologica si differenzia da quella consueta per il fatto che è caratterizzata da uno stato permanente di tensione psichica, che, a differenza di ciò che accade nelle normali ansie, impedisce al soggetto di modificare le sue risposte, facendo precipitare le sue prestazioni e unendosi a sensazioni di disagio e sofferenza. 
 Nella società contemporanea l’interesse dell’uomo è transitato dalla pura conservazione della specie alla ricerca degli ottimi risultati personali e della notorietà sociale.
 Quello su cui ci si confronta e che assorbe sempre più l’uomo contemporaneo è il pensiero del successo collegato al lavoro, all'avere beni di consumo (casa, auto, abbigliamento, tecnologia domestica, vacanze) che mette a rischio con molta facilità di essere coinvolto anche il valore affettivo: famiglia, coppia, amici.
 Entro questo modo di vedere i ritmi di vita aumentano velocemente, gli eventi lasciano poco spazio alla riflessione se non attraverso pensieri preconfezionati, tipo: sto andando male…devo dare di più del mio collega.
 Allorquando questi modelli di esprimersi diventano i soli pensieri intorno cui gira la nostra esistenza, ecco giungere l’ansia come suadente timore di non avere più nulla. L’ansia di scoppiare, di restare indietro, di essere esclusi.
 Va da sé che i turbamenti si trasformano in vere e proprie fissazioni, così profonde, persecutorie, che irrompono anche negli attimi e nei momenti inattesi, impedendo l’operosità della vita quotidiana.
 L’apparire dell’ansia allora raffigura l’avvenimento interno che ci affretta a sostare a meditare sul significato delle nostre iniziative, da cui siamo stati certamente dominati. Oltre la qualità delle nostre attività e degli esiti di vita conseguiti, l’ansia esegue in ogni caso la sua attività fondamentale: pone in confronto le nostre azioni automatizzate e ci costringe al raffronto con noi stessi.
 L’ansia prende origine da un esempio culturale (che può essere individuale o sociale) del non desiderare mai di fermarsi un attimo a meditare, poiché fermarsi è sprecare tempo prezioso, uno sfoggio che non possiamo attribuirci, perché colui che si arresta è perso, perché noi abbiamo l’obbligo di essere sempre al posto giusto nell'attimo giusto è conoscere sempre cosa svolgere. L’ansia ci rammenta che tutte queste cose non sono altre che fantasie, ingannevoli abilità, agiti emotivi, che ci danno soltanto illusione di essere proprietari della nostra vita ma col passare del tempo ci logorano dentro e ci ostacolano di vivere dimensione di stabilità e in salute psicofisica.
 L’ansia, quindi, ha il compito di fare a pezzi il suddetto inganno, a mandare via e a metterci nello stato da fare una fermata, aspirare un lungo respiro e confrontarci con noi stessi dentro una circostanza riorganizzata. 
 Possiamo concludere dicendo che l’ansia normale è adattiva, invece quella patologica è disadattiva.

mercoledì 1 aprile 2020

IL CORAGGIO AS IL CORAGGIO ASPETTO IMPORTANTE DEL COMPORTAMENTO UMANO


Del coraggio nel campo della psicologia non se ne parla abbastanza ed è un argomento di scarsa diffusione, proprio perché si predilige parlare del suo opposto: la paura.
 Ma che cos'è il coraggio?
 Secondo alcuni psicologi, il coraggio non è un oggetto qualsiasi che la natura ci elargisce già finito, ma è una possibilità che, in momenti diversi, deve essere prodotta e porre in azione su misura per le distinte circostanze.
 Diversi studi, infatti, danno prova che il coraggio inizia a rivelarsi già intorno agli 8 (otto) anni, allorquando i bambini incontrano le prime difficoltà nel loro ambiente familiare e sociale e sono costretti a trovare tattiche idonee per poterle risolvere. Esso è condizionato dall'affetto del legame parentale: due genitori che sollecitano il proprio figlio/a ad esaminare l’ambiente, a non temerlo e a non sovrapporsi alle sue scelte, daranno al figlio/a gli strumenti idonei per far fronte alla vita senza farsi vincere dall'ansia.
 Nei nostri ambienti del coraggio non si parla tanto. Ciò nonostante, prima o poi ognuno di noi dovrà decidere di prelevare dal proprio coraggio o meno: quando un progetto non si realizza secondo le intenzioni e necessitano nuove energie per trovare nuove alternative, quando s’ incomincia un nuovo piano di lavoro con passione ma le difficoltà fanno venir voglia di abbandonare l’impresa, quando un rapporto affettivo muta per sempre e bisogna decidere di non insistere ma di smettere di inseguirlo, quando si diviene genitori e necessita adottare un sistema educativo malgrado le difficoltà  che esso richiede, quando si accertano situazioni che per un motivo o per un altro ci costringono a cambiare direzione.
 Diverse, quindi, sono le difficoltà quotidiane – qui riassunte in breve - che bisogna evitare nel percorso della nostra vita. E soltanto le persone coraggiose le accettano e scoprono la terapia giusta, i paurosi invece costruiscono alibi per restare nell'aria di benessere psicofisico.
 Inoltre colui che desidera diventare coraggioso deve lasciar da parte il pensiero che gli avvenimenti seguono sempre lo stesso modello e non deve adagiarsi nella consuetudine e/o smarrirsi nella paura di osare, tenendo a mente che anche alla persona più fortunata prima o poi spetta il fallimento ma che si risolleva, esamina la circostanza, produce le adeguate modifiche di tattica e ripiglia il proprio cammino.
 Certamente il rialzarsi esige di accelerare, di far fronte al dolore psichico, alla fatica e alla disperazione. Una fatica difficile e dura che, chi si dà per vinto auto- compatendosi, camuffando la paura di ricominciare a discutere e di affrontare i nuovi impegni, non deve assolutamente concludere.
 Nella società contemporanea l’essere coraggioso consiste sempre più in azioni esteriori tendenti all'apparire e/o all'avere e sempre meno all'espressione della propria peculiarità, che può aver luogo per l’assunzione di responsabilità delle proprie azioni, rinforzando e preservando esplicitamente, senza alcun timore le proprie idee anche a costo di ottenerne un danneggiamento.  Si predilige gradire e rincorrere le idee della folla o almeno non osteggiarle per poi autocompatirsi e ritenersi vittima di un mondo iniquo che non potrà mai mutare.
Per concludere questa breve analisi, diciamo che il coraggio non è andare contro l’ostacolo, è invece osservarlo da un’angolazione diversa, e scoprire magari un passaggio segreto; a volte diventa l’innesco di un’evoluzione che, senza di esso, forse non si sarebbe mai raggiunta










domenica 1 marzo 2020

IL DUBBIO, TRA NORMALITÀ’ E PATOLOGIA


 Secondo gli psicologi nella società contemporanea vi sono forme di dubbio patologico piuttosto comuni (le prenderemo in considerazione di seguito); per altri studiosi, invece, il dubitare è abbastanza legittimo. Anzi, aggiungono, è basilare, constatato che è proprio sul bagaglio culturale del dubbio si è inserita la tradizione filosofica e scientifica dell’occidente. E il Cogito ergo sum di cartesiana memoria ne è il testimone indiscusso. E concludono dicendo che chi non fa domande, non giunge mai ad alcuna scoperta. Oltre al dubbio rimangano solamente il fanatismo, il dogma, la massima.
 Certamente, un dubbio è di questa natura proprio perché non vi è nessuna certezza, perciò in nessun caso il dubbio deve recare una condanna, difatti persino la nostra tradizione giuridica si fonda sulla presunta innocenza.
 In breve, un dubbio è un dubbio, e come tale può restare indefinitamente. È legittimo, anzi sano averne e non implicare alcuna presa di posizione. Senza schierarsi, non esiste contrapposizione e dunque non ha senso nessuno scontro. Tra i dubbiosi ci può essere confronto sincero, fecondo e aperto, proprio perché nessuno ama restare tra color che son sospesi. I processi naturali mirano in modo naturale a una risoluzione. Come un macigno che rotola giù dal colle, e prima o poi si arresta, così il dubbioso ama cercare di capire, perché vuole risolvere e trovare sollievo rispetto all'ansia dell’incertezza.
 Gli psicologi, invece, sostengono che la predisposizione dell’essere umano a trovare una spiegazione razionale a ogni problema, anche a domande da tralasciare per la loro assurdità, può diventare una insidia molto pericolosa.
 Cercare, infatti, di dare una risposta logica a un dubbio è come spalancare l’uscio, andare oltre l’ingresso, per poi trovarsi di fronte ad altre due porte con il bisogno di sceglierne una, di conseguenza aprirla, superarne la soglia, per trovarne di fronte altre tre, poi cinque, poi sette e così via.
 Accade ciò in quanto ogni risposta razionale a un dubbio, che non può essere districato razionalmente, nascono senza sosta altre domande la cui risposta genera altrettanti punti interrogativi, incrementando un circolo vizioso infinito. Logico esito: arresto totale dell’individuo nella sua vita quotidiana.
 Un dubbio spesso frequente negli adolescenti, a esempio, è quello riguardante l’inclinazione alla sfera sessuale:<<Sono etero, omo o bisessuale?>>.  È chiaro che la risposta a questo dubbio è insita nelle sensazioni avvertite di fronte a uno dello stesso sesso o di fronte a una donna e non tanto nelle argomentazioni.
 Va da sé che cercare di far chiarezza sulle proprie naturali tendenze sessuali proietta oscure ombre e alimenta i dubbi. Si tratta di un circolo vizioso tra pensieri e sensazioni che complica il problema invece di risolverlo.
 Il soggetto, cascato nel suo stesso tranello, è di solito portato a cercare ulteriori prove sul proprio genere sessuale, persino a mettere in pratica veri e propri esperimenti per verificare l’effetto su di sé, producendo ulteriori incertezze e confusioni, nella maggioranza dei casi accompagnate da “sensazioni di colpa o di disagi”.,
(G. Nardone, G. De Santis, Cogito Ergo soffro, Ponte alle Grazie, 2011).
 Un altro esempio di un sofferto cammino dell’individuo succube del dubbio, è in rapporto con la volontà e l’impegno di respingere razionalmente pensieri insinuatisi arbitrariamente che inquietano la tranquillità mentale. In questa circostanza la lotta è tra il pensiero e il pensare: cioè, tramite il pensare ragionevolmente si tenta d’ invalidare un pensiero illogico o semplicemente fuori luogo.
 Per concludere possiamo dire che il dubbio è normale, anzi possiamo aggiungere che può essere considerato un elemento sano, saggio, proprio perché indicatore di persona matura, che sa riflettere su quello che le sta accadendo, che sta facendo e si interroga su quale sia il gesto, l’aspetto e/o la risposta più adeguata.
 Il fatto importante è come sempre l’equilibrio: il dubbio “sano” spinge a riflettere e a trovare una soluzione soddisfacente.

sabato 1 febbraio 2020

LA PIGRIZIA UN’EMOZIONE SCOMOD


A volte quando ci svegliamo o durante la giornata dopo un periodo di duro lavoro, ci sentiamo stanchi più del solito, e pensando a tutto ciò che dobbiamo fare ci sembra troppo noioso o difficile. Arriva all'improvviso la pigrizia come una mancanza di determinazione nel compiere un’azione di cui si riconosce l’importanza e si traveste con nomi differenti, quali: ozio, fiacchezza, poltroneria, accidia, fannullaggine.
 La pigrizia, quindi, può giungere per varie ragioni. Certe volte arriva con le abitudini giornaliere, quando svolgiamo le medesime attività, e pure a volerle sostituire con altre, abbiamo timore di farlo. In questi casi, la pigrizia diventa una scusa per far restare le cose come sono. Essa diviene un avversario da sconfiggere in qualunque modo in quanto mette a rischio la nostra felicità.
 Talora può essere generata dalla stanchezza psicofisica. In questi casi, dopo un periodo di faticosi impegni, non si ha voglia di fare niente e il solo pensiero di compiere ulteriori compiti ci causa una terribile emicrania. Naturalmente, in questa circostanza la pigrizia è come una specie di meccanismo di difesa, un campanello d’allarme che abbiamo bisogno di riposare e recuperare le forze.
 In realtà, se ci giriamo indietro e analizziamo gli attimi in cui siamo attaccati dalla pigrizia, è possibile comprendere un modello comune: erano tutte circostanza in cui eravamo obbligati ad accollarci qualche rischio; il pericolo di cambiare alcuni oggetti nella propria vita o di far fronte a un serio problema. La pigrizia fa da dispositivo di difesa di fronte a condizioni che sembravano più grandi di noi dal punto di vista conoscitivo ed emotivo. La pigrizia ci proteggeva dal possibile cambiamento proprio perché sappiamo bene che il nostro cervello non è certamente a suo comodo con i cambiamenti, ma preferisce vie già sperimentate.
 Ciò nonostante, la pigrizia è la strada più corta verso il malcontento. Al di là a essere una sensazione fastidiosa, ci ostacola il cammino facendoci rimandare decisioni importanti ed eluderci di prendere in visione nuovi argomenti che potrebbero aiutarci a migliorare.
 Giunti sin qui abbiamo analizzato e compreso che la pigrizia non può essere la nostra emozione più esperta. Allora, in che modo possiamo gestirla?
 Un metodo efficace consiste nel fare delle minime attività ogni giorno, in tal modo da avere la percezione di non essere vessati o costretti. La cosa migliore sarebbe quella d’ iniziare a produrre qualcosa che non risulti troppo audace, così da sentirci accoglienti, ma che nel contempo rappresenti una piccola spia.
 A d’esempio, è regola importante riflettere con attenzione sul presente, cercando di tenersi occupati anche nel tempo libero invece di dissipare la mattinata a letto o sul divano, provare a impegnarsi magari in cucina, a svolgere qualche attività sportiva, o in alternativa a fare una semplice passeggiata. Se permettiamo che questi suggerimenti positivi sostituiscano la pigrizia, se sviluppiamo la capacità, ogni cosa diventerà molto più facile.
 Di frequente il pensiero di fallire è il motivo principale per cui molte persone rimandano le attività.  Tra tutte le cause del rimandare a dopo le nostre attività, la paura di fallire è certamente un’emozione delle più condizionanti.
 Infatti chi ha paura di sbagliare di solito è molto preoccupato di cosa si possa pensare delle sue capacità e perciò preferisce oziare. Analizzare correttamente e in modo imparziale le proprie paure ed evidenziare la nostra attenzione su di noi stessi e non sugli altri ci permetterà di affrontare la quotidianità senza sentirsi giudicati.
 A questo punto è reale fissare un obiettivo, aumentare un poco l’impegno ogni giorno: porsi una nuova competizione. Constateremo che l’attività chiama altra attività e a poco a poco la pigrizia ci lascerà in pace. Ogni qualvolta che riusciremo a svolgere nuovi impegni saremo sicuramente felici, e ciò sarà di stimolo per uscire dalla nostra zona accogliente stimolandoci a fare nuove azioni positive. Un mattino ci sveglieremo e la pigrizia ci ha lasciati e al suo posto vi sarà una persona più produttiva e soprattutto sicura di sé.









sabato 4 gennaio 2020

UMILIAZIONE EMOZIONE SGRADEVOLE


  Nella credenza popolare si dice che commettere un errore è umano. Per cui essere
eventualmente ripresi non può essere considerata per forza una umiliazione.
 In tutti i modi, nel caso in cui veniamo corretti in maniera che ci fa provare vergogna, probabilmente è questo intervento che non ci fa sentire bene con noi stessi, indipendentemente dal nostro bagaglio culturale. E allora cosa s’intende per umiliazione?
 Recenti studi definiscono l’umiliazione l’emozione che avvertiamo allorquando la nostra capacità viene svalutata in presenza di altre persone. Potremmo avvertire un certo disagio quando commettiamo un errore o non ricordiamo la risposta a un quesito, ma fino a che non vi è intorno nessun testimone, non accade niente d’ irreparabile. Normalmente occorre che sia presente qualche persona ad affermare il presunto errore per sentirsi umiliati.
 Come abbiamo appreso per nostra diretta conoscenza, perciò, l’umiliazione è uno stato emotivo del tutto avverso. Incredibilmente, è pure studiato non abbastanza in ambito psicologico.
 Al contrario, altre emozioni negative, quali rabbia, ansia, gelosia e paura, sono più soggette a studi sperimentali, probabilmente perché puntare l’attenzione su di essi ha chiare implicazioni pratiche: la rabbia è deleteria per la salute, l’ansia rende difficoltose le attività, la gelosia porta a contrasti relazionali, la paura può essere un supporto per sviluppare delle fobie.
L’umiliazione è quindi un’emozione sgradevole che almeno apparentemente non sembra avere molte conseguenze sul cervello. Tuttavia, da diverse ricerche, possiamo evidenziare il fatto che il nostro cervello non gradisce per nulla essere umiliato. Non soltanto ci sentiamo delusi, ma il livello di attivazione della risposta cerebrale è più evidente rispetto ad altri stati emotivi.
 Sembra abbastanza ovvio che venire ripresi davanti ad altre persone non ci fa sentire bene. Però, se crediamo opportuno di dare una mano a un amico o a un familiare ponendo in evidente i suoi errori, molto probabilmente calcoliamo in malo modo il nostro aiuto. Vi sono modi cortesi e più tenui per dare un messaggio correttivo alle persone cui siamo legati affettivamente che desideriamo preparare o in qualche modo aiutare. Tenendo presente che il nostro parere o la nostra lezione educativa sia un veicolo che conservi intatto l’amor proprio dell’altro, questo è il modo più semplice per evitare di umiliarlo.
 S’intende che come per tutte le emozioni, dirigere l’umiliazione deriva da come si   capisce la situazione. Secondo la teoria cognitiva delle emozioni, la maniera in cui avvertiamo disagio è direttamente proporzionale al modo in cui si pensa. Se siamo così determinati e odiamo essere in errore davanti agli altri, potremo usufruire dell’analisi dei pensieri che sono presenti durante quella situazione. Se l’umiliazione è un’emozione che prende origine dal percepirsi svalutato, allora dovremmo rivedere di nuovo la situazione di disagio minimizzando l’effetto dell’episodio sulle nostre reali capacità conoscitive.
 Può capitare che un amico, un nostro familiare o un insegnante desidera soltanto evitare che ripetiamo lo stesso errore e pertanto il danno della capacità è soltanto irreale. Rivedere la situazione di disagio mentale riducendo questo aspetto mitigherebbe assai la sofferenza psichica. Pure se gli altri hanno ragioni meno dignitose, tuttavia avremmo lo stesso dei benefici. Col concedere a noi stessi la facoltà di avvertire la perdita di dignità, amor proprio o reputazione, limiteremo il “loro” diletto nel vederci in difficoltà.
 Per concludere questo discorso diciamo che l’umiliazione si può mostrare in vari aspetti, dal respingere all'essere ripresi davanti ad altre persone per un fallo commesso volontario o meno. Capire il rapporto con le reazioni nel nostro cervello ci può essere d’aiuto a superare, o anche a evitare, l’acuta sofferenza di questa emozione negativa.