A proposito di nomi,
non ricordo più il mio, né la mia professione, né da dove provengo; nulla
insomma, come se la mia mente fosse ritornata ai tempi della mia prima
infanzia. Ogni tanto tra le strutture dei miei neuroni ronzano nomi vari che,
come impulsi elettrici, accendono la lampada della ideazione illuminando per
attimi il buio pesto della mente; ma poi il solito “clic” del misterioso
interruttore mentale interrompe il momentaneo incantesimo e il mostro nero
ritorna a coprire le vie nervose intasate da scorie organiche.
Sta di fatto che mi trovo in un centro di malattie mentali della Capitale – un palazzo sei o settecentesco immerso in un misto verde che mi pare finto, tanto è stretto nella morsa di cemento che da ogni dove lo circonda – in compagnia di ogni sorta di rifiuti umani; esseri che non hanno più nulla di vivo, anche se sono vivi tra esseri viventi.
Io, in questo posto di apparente tranquillità e benessere fisico, non ero venuto con le mie gambe. Quel aguzzino-amico di Gianni, il capo sala, un misto quasi confuso di franca e sincera solidarietà per i dolori umani e di scrupolosa osservanza delle terapie fisiche non sempre salutari per i pazienti, aveva detto che alcuni soccorritori mi avevano portato in quel nosocomio con un’ambulanza della Croce Verde, con la testa rotta e in preda a un grave shock psichico, dopo che i pompieri, aperto un varco con la fiamma ossidrica, mi avevano raccolto tra le lamiere contorte di una carrozza ferroviaria che si era rovesciata in una scarpata in seguito a non so quale causa.
Ma cosa ci stavo a fare su quel treno? Da dove provenivo e dove ero diretto? Ma, soprattutto, perché non si trovavano i miei documenti?
Sicuramente dovevo portare con me un bagaglio o una borsa o una giacca col portafoglio. “Non se lo ricorda? Nooo?”, mi ripeteva il professore Verdone, direttore dell’ospedale psichiatrico, nei colloqui terapeutici.
Certamente il professore aveva ragione; quando un individuo viaggia si porta dietro se non un grosso bagaglio almeno la valigetta ventiquattr’ore con lo stretto necessario; ma nella mia mente c’era tanta confusione e per quanti tentativi facessi nei meandri del cervello non scorgevo altro che mucchi di immagini di poveri dementi incappati nella trappola di un paradiso senza ritorno. Inutile spremere le meningi, oltre a quel branco silenzioso, a volte agitato, di dannati che mi giravano continuamente intorno mai sazi d’osservarmi, come per dire: beato lui che ha perso l’uso della memoria, non ricordavo né il volto di una persona amata, né il nome di un politico cui dovevano andare le mie simpatie: avevo cancella tutto, non riuscivo a distinguere nomi e persone.
Ma qualcosa doveva pure affiorare, per tutti i diavoli del mondo! Si agitava il professore sdraiato vicino alla finestra e mi fissava negli occhi.
“Chi è costui?” mi gridò all’improvviso un mattino mettendomi sotto gli occhi una fotografia, formato trenta per venticinque, di un vecchio dalle gote cascanti e dal volto devastato dalle rughe.
“Aldo Valleschi” risposi con sicurezza, dopo aver girato e rigirato il ritratto tra le mani.
“Ma non dica idiozie” sbottò il medico e per l’incontrollata impazienza picchiò con la punta del piede contro il legno della scrivania. “Questo è ...”, s’interruppe.
Non gli risposi, né egli mi rivolse alcuna domanda. Nella profondità del silenzio della stanza, osservavo il volto del professore che mi stava di fronte: aveva sulle labbra una smorfia dolorosa, ma non era adirato: capiva che noi due combattevamo fianco a fianco lo stesso drago. Sicuramente egli pensava alla risoluzione del mio difficile caso clinico; io, invece, ero fermo con la mente a considerare la somiglianza tra il mio compagno di stanza, un depresso abbandonato qui trent’anni prima dai familiari e lo sconosciuto della fotografia. Che combinazione, pensavo, sembravano due gocce d’acqua, tanto erano simili: avevano gli stessi occhi, la stessa bocca, lo stesso naso, le stesse rughe e persino la medesima espressione, sciatta e spenta, adattata, non per necessità di copione, sul volto freddo e lungo, che non poteva chiedere più nulla alla vita.
Se non riuscivo a distinguere, dovevo imparare daccapo. Ah! ma avevo l’impressione di non dover mai imparare, anche se tutti, medici e infermieri, mi ventilavano sotto il naso la necessità e l’urgenza d’apprendere. Eppure quando un individuo s’accorge d’essere in difficoltà gli basta uno sguardo, una mossa, una piccola cosa per imparare, e s’impara velocemente. Io, invece, per quanti maestri ebbi, non facevo alcun progresso: c’era qualcosa di diabolico, qualcosa di animalesco in me, che s’intonava molto bene col mio aspetto fragile e convincente, un salutare e misterioso miscuglio che immobilizzava la volontà e il desiderio di fare degli stessi terapisti e non spiegava il mio momentaneo arresto psichico.
Per esercitare la mia memoria, il professore aveva preparato un apposito labirinto. Mi faceva prima camminare in diverse stanze comunicanti e studiavo il percorso, poi mi bendava ed io dovevo andare da una stanza in un’altra servendomi del tatto e del fiuto. Non lo nego, facevo qualche progresso visibile. I miei neuroni, malgrado la botta, non erano del tutto disfatti, come quelli dei miei compagni di detenzione distrutti dagli psicofarmaci. Avevo notato molti piccoli particolari positivi; ricordavo, per esempio, perfettamente ogni angolo, ogni oggetto, ogni odore delle singole stanze; ciò faceva sperare in una prossima guarigione, ma non tutti i medici erano ottimisti: qualcuno aveva notato il mio scarso entusiasmo di partecipare al gioco terapeutico e la poca enfasi nell’accogliere i primi risultati.
In verità, io non facevo tanto sforzo per guarire; recitavo la mia parte d’ammalato nel modo migliore e nel modo più convincente per me e per loro, i medici e gli infermieri, in quanto nessun altro, escluso l’interessato, sa cosa realmente succede nella mente di un individuo.
Questa mia involuzione mi era incomprensibile. Sperimentavo sul mio stesso corpo gli sguardi gelidi degli occasionali e frettolosi visitatori, gente indaffarata che veniva saltuariamente a fare il giro delle gabbie, come in un giardino zoologico, a osservare gli animali selvatici corrosi dall’odio e pazienti con le mosche ronzanti attorno agli occhi umidi. Ma continuavo lo stesso a fare la parte dello smemorato e lasciavo fluire i cattivi umori e le promesse al di là della mia coscienza.
Forse un giorno verrà l’ora del ritorno tra le cose razionali; comunque, oggi, continuo a passeggiare, perché non posso farne a meno, nei corridoi dell’ospedale psichiatrico, malgrado il caldo afoso della stagione estiva, in attesa della terapia fisica o di un colloquio col professore, fingendo d’ignorare le smanie di un vicino di stanza, un paranoico, infastidito dalla mia presenza.
“Ehi, tu, 34, tieniti lontano dal mio territorio” mi grida ogni qualvolta gli passo davanti.
Io rimango muto e continuo per la mia strada, con le mani in tasca e con lo sguardo fuori dalle finestre.
Malgrado tutto, quel numero mi piace; ha sostituito efficacemente il mio cognome e nome e più o meno mi ha sottratto a una vita a rincorrere chimere.
Sta di fatto che mi trovo in un centro di malattie mentali della Capitale – un palazzo sei o settecentesco immerso in un misto verde che mi pare finto, tanto è stretto nella morsa di cemento che da ogni dove lo circonda – in compagnia di ogni sorta di rifiuti umani; esseri che non hanno più nulla di vivo, anche se sono vivi tra esseri viventi.
Io, in questo posto di apparente tranquillità e benessere fisico, non ero venuto con le mie gambe. Quel aguzzino-amico di Gianni, il capo sala, un misto quasi confuso di franca e sincera solidarietà per i dolori umani e di scrupolosa osservanza delle terapie fisiche non sempre salutari per i pazienti, aveva detto che alcuni soccorritori mi avevano portato in quel nosocomio con un’ambulanza della Croce Verde, con la testa rotta e in preda a un grave shock psichico, dopo che i pompieri, aperto un varco con la fiamma ossidrica, mi avevano raccolto tra le lamiere contorte di una carrozza ferroviaria che si era rovesciata in una scarpata in seguito a non so quale causa.
Ma cosa ci stavo a fare su quel treno? Da dove provenivo e dove ero diretto? Ma, soprattutto, perché non si trovavano i miei documenti?
Sicuramente dovevo portare con me un bagaglio o una borsa o una giacca col portafoglio. “Non se lo ricorda? Nooo?”, mi ripeteva il professore Verdone, direttore dell’ospedale psichiatrico, nei colloqui terapeutici.
Certamente il professore aveva ragione; quando un individuo viaggia si porta dietro se non un grosso bagaglio almeno la valigetta ventiquattr’ore con lo stretto necessario; ma nella mia mente c’era tanta confusione e per quanti tentativi facessi nei meandri del cervello non scorgevo altro che mucchi di immagini di poveri dementi incappati nella trappola di un paradiso senza ritorno. Inutile spremere le meningi, oltre a quel branco silenzioso, a volte agitato, di dannati che mi giravano continuamente intorno mai sazi d’osservarmi, come per dire: beato lui che ha perso l’uso della memoria, non ricordavo né il volto di una persona amata, né il nome di un politico cui dovevano andare le mie simpatie: avevo cancella tutto, non riuscivo a distinguere nomi e persone.
Ma qualcosa doveva pure affiorare, per tutti i diavoli del mondo! Si agitava il professore sdraiato vicino alla finestra e mi fissava negli occhi.
“Chi è costui?” mi gridò all’improvviso un mattino mettendomi sotto gli occhi una fotografia, formato trenta per venticinque, di un vecchio dalle gote cascanti e dal volto devastato dalle rughe.
“Aldo Valleschi” risposi con sicurezza, dopo aver girato e rigirato il ritratto tra le mani.
“Ma non dica idiozie” sbottò il medico e per l’incontrollata impazienza picchiò con la punta del piede contro il legno della scrivania. “Questo è ...”, s’interruppe.
Non gli risposi, né egli mi rivolse alcuna domanda. Nella profondità del silenzio della stanza, osservavo il volto del professore che mi stava di fronte: aveva sulle labbra una smorfia dolorosa, ma non era adirato: capiva che noi due combattevamo fianco a fianco lo stesso drago. Sicuramente egli pensava alla risoluzione del mio difficile caso clinico; io, invece, ero fermo con la mente a considerare la somiglianza tra il mio compagno di stanza, un depresso abbandonato qui trent’anni prima dai familiari e lo sconosciuto della fotografia. Che combinazione, pensavo, sembravano due gocce d’acqua, tanto erano simili: avevano gli stessi occhi, la stessa bocca, lo stesso naso, le stesse rughe e persino la medesima espressione, sciatta e spenta, adattata, non per necessità di copione, sul volto freddo e lungo, che non poteva chiedere più nulla alla vita.
Se non riuscivo a distinguere, dovevo imparare daccapo. Ah! ma avevo l’impressione di non dover mai imparare, anche se tutti, medici e infermieri, mi ventilavano sotto il naso la necessità e l’urgenza d’apprendere. Eppure quando un individuo s’accorge d’essere in difficoltà gli basta uno sguardo, una mossa, una piccola cosa per imparare, e s’impara velocemente. Io, invece, per quanti maestri ebbi, non facevo alcun progresso: c’era qualcosa di diabolico, qualcosa di animalesco in me, che s’intonava molto bene col mio aspetto fragile e convincente, un salutare e misterioso miscuglio che immobilizzava la volontà e il desiderio di fare degli stessi terapisti e non spiegava il mio momentaneo arresto psichico.
Per esercitare la mia memoria, il professore aveva preparato un apposito labirinto. Mi faceva prima camminare in diverse stanze comunicanti e studiavo il percorso, poi mi bendava ed io dovevo andare da una stanza in un’altra servendomi del tatto e del fiuto. Non lo nego, facevo qualche progresso visibile. I miei neuroni, malgrado la botta, non erano del tutto disfatti, come quelli dei miei compagni di detenzione distrutti dagli psicofarmaci. Avevo notato molti piccoli particolari positivi; ricordavo, per esempio, perfettamente ogni angolo, ogni oggetto, ogni odore delle singole stanze; ciò faceva sperare in una prossima guarigione, ma non tutti i medici erano ottimisti: qualcuno aveva notato il mio scarso entusiasmo di partecipare al gioco terapeutico e la poca enfasi nell’accogliere i primi risultati.
In verità, io non facevo tanto sforzo per guarire; recitavo la mia parte d’ammalato nel modo migliore e nel modo più convincente per me e per loro, i medici e gli infermieri, in quanto nessun altro, escluso l’interessato, sa cosa realmente succede nella mente di un individuo.
Questa mia involuzione mi era incomprensibile. Sperimentavo sul mio stesso corpo gli sguardi gelidi degli occasionali e frettolosi visitatori, gente indaffarata che veniva saltuariamente a fare il giro delle gabbie, come in un giardino zoologico, a osservare gli animali selvatici corrosi dall’odio e pazienti con le mosche ronzanti attorno agli occhi umidi. Ma continuavo lo stesso a fare la parte dello smemorato e lasciavo fluire i cattivi umori e le promesse al di là della mia coscienza.
Forse un giorno verrà l’ora del ritorno tra le cose razionali; comunque, oggi, continuo a passeggiare, perché non posso farne a meno, nei corridoi dell’ospedale psichiatrico, malgrado il caldo afoso della stagione estiva, in attesa della terapia fisica o di un colloquio col professore, fingendo d’ignorare le smanie di un vicino di stanza, un paranoico, infastidito dalla mia presenza.
“Ehi, tu, 34, tieniti lontano dal mio territorio” mi grida ogni qualvolta gli passo davanti.
Io rimango muto e continuo per la mia strada, con le mani in tasca e con lo sguardo fuori dalle finestre.
Malgrado tutto, quel numero mi piace; ha sostituito efficacemente il mio cognome e nome e più o meno mi ha sottratto a una vita a rincorrere chimere.
E.C.
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